1.
PREMESSA.
Si possono comprendere e narrare le
fonti primarie e le altre testimonianze solo attraverso una rigido adempimento di
un metodo stabilito, che consiste nell’osservazione, nell’accertamento e nell’interpretazione
dei fenomeni storici. Il metodo storico quindi
deve essere impiegato come metodo di ricerca e di approfondimento per capire, come
nel caso in esame, l’unità della Nazione ed i fatti che la permisero.
a.
Avvenimento oggetto di studio.
Il tema della presente trattazione è la
campagna d’invasione nelle Marche e nell’Umbria (Scontro di Castelfidardo e
Battaglia di Ancona), svoltasi dall’11 settembre al 3 ottobre del 1860. Per
comprendere questo, come ogni altro evento storico rilevante (si pensi alla battaglia
di Canne, 216 a.C.), è necessario approfondire tutti gli avvenimenti del
Risorgimento che vanno dal 1846-48, la Repubblica Romana del 1849, la II guerra
d’Indipendenza del 1860, la battaglia del 1866 come III guerra d’Indipendenza,
fino alla presa di Roma (20 settembre 1870), vale a dire la formazione del moderno
Stato unitario italiano.
Tali avvenimenti sono alla base dell’identità
nazionale e dell’attuale modo di concepire lo Stato.
b.
Limiti di tempo e di spazio.
Il 1860 è stato giustamente definito l’anno
mirabilis del Risorgimento italiano:
in gennaio Cavour torna a guidare il governo sabaudo, nell’Italia centrale le
insurrezioni di matrice mazziniana cacciano i governi fedeli ai principi della
Restaurazione, l’Emilia e la Toscana votano plebiscitariamente l’annessione al
Piemonte, Garibaldi conquista la Sicilia e, risalendo in breve tempo le
Calabrie, il 7 settembre fa il suo ingresso a Napoli. Tale è, altresì,
considerato per i successi ottenuti dalle forze sarde nello svolgimento della
campagna dell’Umbria e delle Marche.
L’area dove si svolgono gli
avvenimenti in esame comprende le attuali province di Ancona e Macerata.
c.
Scopi e criteri.
L’assedio di Ancona del 1860 può
essere considerato come la prima operazione interforze
del costituendo Regno d’Italia. La presa della piazzaforte d’Ancona è forse uno
dei pochi esempi nella storia delle Forze Armate italiane di tutto l’800 e di
gran parte del ‘900, in cui si ritrova unità di comando, coordinazione delle
intelligenze e cooperazione di tutte le componenti delle forze impegnate in
campo, siano esse terrestri
(artiglieria, fanteria e cavalleria), che navali.
Tale campagna (1860) è fondamentale
per comprendere e interpretare i successivi avvenimenti del 1866 che
rappresentano, invece, l’esempio opposto. La mancanza di coordinazione e di
unità di intenti, tra il generale Cialdini e il generale La Marmora, comporta
la sconfitta del 24 giugno a Custoza, sebbene la tradizione unitaria italiana,
non la ricordi come tale, in quanto l’Esercito Sardo aveva ottenuto la vittoria
nelle fasi iniziali. Nella realtà dei fatti la tragedia di Custoza vede la
colonna del generale Govone mettere in fuga l’Arciduca Alberto d’Asburgo e
ridurre gli austriaci alla ritirata, ma il generale Morozzo della Rocca, non
avendo ricevuto l’ordine superiore non consente all’Esercito Italiano di sfruttare
il successo iniziale per inseguire gli austriaci e sconfiggerli. Gli stessi, vedendo
un movimento retrogrado di alcuni carreggi piemontesi, pensano che gli italiani
si stiano ritirando e perciò tornano indietro costringendo quest’ultimi ad arretrare
oltre il Mincio.
È d’obbligo a questo punto fare alcune
precisazioni poiché, spesso nelle fonti primarie, vi è una differenza tra teoria e pratica.
Senza voler fare revisionismi, né mettere in discussione ciò che è la realtà, è
necessario considerare che, se si vuole studiare correttamente il Risorgimento
d’Italia, è doveroso rivedere molte delle acquisizioni che la tradizione ci ha
tramandato, ricordando che, all’indomani delle principali tappe del 1849, del
1859 e del 1860, vengono ottenuti solo dei successi parziali nella costituzione
dello Stato unitario.
Cavour, soprattutto dopo il 1860, ha
il prioritario obiettivo di rafforzare il costituendo Stato, piuttosto che
procedere all’acquisizione di nuove terre. Per tale motivo, il Cancelliere non condivide
la Spedizione dei Mille, considerando il Meridione quasi una terra estranea all’Italia. Cavour è preoccupato
dall’acquisizione della Lombardia avvenuta nel 1859 e da quella dell’Italia
centrale (Toscana, Emilia e Romagna) dovendo procedere all’integrazione di
questi Stati nel ceppo Piemontese e nel Regno di Sardegna. Ciò rappresenta non
solo la priorità, ma anche un difficile problema, che può minare l’Unità stessa
della Penisola. È pertanto necessario dare delle disposizioni di carattere
categorico: da qui è scaturita la storiografia rinascimentale italiana che
doveva essere funzionale a costruire l’Italia unita sia come Stato, sia come Nazione.
Oggi, a 150 anni di distanza, si potrà dire ciò che realmente è avvenuto e comprendere
come i Pontifici abbiano conseguito il successo nel 1860 a Castelfidardo, guardando
semplicemente al piano d’operazioni.
2. I
BELLIGERANTI E LE ORIGINI DEL CONFLITTO.
a.
I belligeranti.
I principali belligeranti della campagna
nelle Marche e nell’Umbria sono il Regno di Sardegna e lo Stato Pontificio.
b.
Le origini del conflitto.
La II Guerra d’Indipendenza ha inizio
nel 1859, prosegue con la campagna nelle Marche e nell’Umbria dell’anno
successivo e si conclude con la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861.
Tra gli avvenimenti più importanti si
devono ricordare gli accordi segreti di Plombières con Napoleone III in
funzione antiaustriaca, l’intervento della Francia e le Battaglie di Solferino
e San Martino che segnarono, tra l’altro, la nascita della Croce Rossa ad opera
dello svizzero Henry Dunant.
L’armistizio di Villafranca (11 luglio
1859), voluto da Napoleone III, timoroso di una reazione prussiana sul Reno,
mentre l’esercito è interamente impegnato in Italia, provoca le dimissioni di Cavour che
è poi richiamato dal Re già il successivo 20 gennaio 1860, dopo una breve
parentesi di La Marmora.
Il 27 aprile 1859 il granduca Leopoldo
II lascia Firenze e viene sostituito dal Governo Provvisorio Toscano; parallelamente,
i Ducati di Parma e Modena, le Legazioni (Bologna e le città dell’Emilia e della
Romagna) si staccano dallo Stato Pontificio e formano la Lega dell’Italia Centrale,
che sarà annessa al Regno di Sardegna solo con i plebisciti dell’11 e del 12
marzo 1860.
Le Forze Armate dell’Italia centrale sono
poste sotto il comando del generale Manfredo Fanti a Firenze e del suo vice, il
generale Giuseppe Garibaldi, a Rimini. Questi concepisce, tra il dicembre 1859 ed
il gennaio 1860, un’azione su Ancona con l’intento di dirigersi a Roma, immediatamente
bloccata fermamente dal Fanti. L’obiettivo di Garibaldi sarà il fulcro intorno
cui ruoteranno tutti gli avvenimenti del 1859-60: il Partito d’Azione
Rivoluzionario vuole recarsi a Roma per abbattere il potere temporale dei papi,
mentre il governo sabaudo è più prudente, se non addirittura contrario
all’iniziativa e agisce per ritardarla. Il fermo veto di Fanti e il mancato
appoggio di Cavour e delle Grandi potenze costringono Garibaldi a dimettersi.
Il piano sarà poi ricalcato, nelle sue linee d’azione, dal IV Corpo d’Armata del
generale Cialdini quando da Cattolica muoverà su Ancona pochi mesi dopo.
Intanto a Torino si progetta come
portare avanti l’unificazione della Penisola il cui passo successivo è rappresentato
dall’invasione dell’Italia centrale.
È importante ricordare che le
decisioni del Risorgimento italiano vengono prese nelle logge massoniche che
fanno capo alla Massoneria Universale, al cui vertice è posta, a quel tempo, la
Regina d’Inghilterra.
È
infatti la comune appartenenza alla Massoneria, il principale collegamento tra
Vittorio Emanuele, Garibaldi e i grandi nemici Cavour e Mazzini, uno
conservatore e l’altro progressista. Questi quattro uomini, sebbene siano
massoni e accomunati dall’ideale della Dea Ragione, frutto della rivoluzione
francese, hanno idee completamente diverse sul piano politico, per quanto
concerne le linee d’azione per giungere all’Italia unita.
È necessario comprendere che tutti gli
avvenimenti del 1860 potranno realizzarsi solo con il benestare dei Grandi del
tempo (Austria, Francia e Inghilterra). Garibaldi e i principali esponenti del
Partito d’Azione ottengono, infatti, dalla Cancelleria piementose, che auspica
per loro la medesima fine del Pisacane, il consenso politico per lo svolgimento
della Spedizione nel Meridione.
La spedizione dei Mille, autorizzata
dal governo sabaudo, ha il principale obiettivo di allontanare Garibaldi ed
impedirgli di portare avanti ulteriori azioni nel centro Italia. L’iniziativa
garibaldina, contrariamente a quanto auspicato da Cavour, ha successo, ancorché
il contingente parta, il 4 maggio da Quarto, armato solo di vecchi fucili e
privi di munizioni e polvere da sparo. Dopo una breve sosta a Talamone, determinata
dalla necessità di rifornirsi di munizioni, Garibaldi giunge l’11 maggio 1860, sotto
la protezione della Flotta del Persano e di quella inglese, sulle coste
siciliane e sbarca a Marsala. Il 15 maggio 1860, in località Pianto
Romano, a poca distanza dall'abitato di Calatafimi, i Mille si trovano di
fronte otto battaglioni Cacciatori ed altre truppe borboniche al comando del
generale Landi. Il primo attacco, dai piedi della
collina, è portato dai trenta Carabinieri genovesi armati di carabina, per
colpire gli ufficiali avversari e quindi scardinare l’azione di comando (azione
che sarà ripetuta anche a Castelfidardo). Ma la sorte non sembra essere
favorevole alle “camicie rosse”, lo stesso Bandi, segretario di Garibaldi,
gravemente ferito, si aspettava il colpo di grazia da parte delle forze borboniche.
Verso le cinque di sera, dopo aver
respinto ripetuti assalti da parte delle ben preparate e meglio armate truppe
borboniche, i garibaldini, praticamente sconfitti, si preparano a ripiegare, quando
il generale Landi dà ordine alle truppe borboniche di fare ritorno agli
acquartieramenti. I contadini, che assistono dalle colline all’andamento della
battaglia, vedendo i borbonici “ritirarsi” e quei pochi garibaldini superstiti
avviarsi verso la cima della collina, decretano la vittoria di Garibaldi e si uniscono
quindi alle sue truppe.
La campagna di Garibaldi nel Meridione
procede favorevolmente al contrario delle aspettative della Cancelleria
torinese. In quei primi giorni di operazioni Giuseppe Garibaldi assume la dittatura
della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele con l’Editto di
Salemi, facendone la prima capitale del Regno d’Italia, anche se per un sol
giorno. La presa di Palermo del 27 maggio, attraverso il Ponte
dell’Ammiragliato, segna il primo vero successo militare della Spedizione dei
Mille e pone le basi per la conquista di tutta l'Italia Meridionale. Nella
battaglia di Palermo i trentamila Borbonici restano nelle Caserme e i 2200
Garibaldini non trovano praticamente resistenza, in quanto l’anziano generale
Lanza credendoli attestati a Corleone non da l’ordine ai soldati di intervenire.
Il Bandi descrive nelle sue pagine la campagna di Sicilia ed i rapporti
esistenti tra il console inglese, la flotta inglese, la massoneria ed i
proprietari inglesi che vogliono l’allontanamento dei Borboni ostili ai loro commerci
(si pensi che il vino marsala, era ricercatissimo sulle tavole di Londra).
La sconfitta delle truppe borboniche il
20 luglio
a Milazzo e la neutralizzazione di Messina, pongono
i presupposti per dare inizio ai preparativi di passaggio sul continente. La Sicilia
è dunque conquistata, il 3 settembre 1860 l’esercito di Garibaldi attraversa lo
Stretto ed il Generale giunge a Napoli il 7 settembre in carrozza e senza
scorta.
Ai napoletani plaudenti su via Toledo Garibaldi
comunica che non si fermerà a Napoli, ma vuole immediatamente proseguire per
raggiungere il suo principale obiettivo, la presa di Roma.
Allo stato dei fatti, il reale
pericolo per il progetto cavouriano è rappresentato dall’azione di Garibaldi.
3. LA
SITUAZIONE GENERALE.
- Le
Istituzioni militari pontificie (1849-1860).
Fin qui è stato rappresentato il
quadro generale, ma è tuttavia necessario comprendere anche chi siano gli
antagonisti della Cancelleria sabauda. A Roma vi è naturalmente il papa Pio IX,
le cui istituzioni militari pontificie dal 1849 al 1860 sono state
profondamente ristrutturate. La Repubblica Romana è tramontata, sono ritornati
i cardinali tra cui i della Gancia che restaurano il potere temporale dei papi
e con 8000 uomini ricostituiscono l’Esercito pontificio. Esso si trasforma prima
nel 1850 con i Veliti pontifici, diventati poi gendarmi e, ancora, nel 1852 con
la riforma Kellerman, che mette a punto un esercito pienamente capace di
svolgere l’incarico più importante: mantenere l’ordine pubblico e tenere testa
ad ogni rivoluzione. Quindi, nel 1860 si costituisce il cosiddetto esercito di
de La Moriciere, che combatterà a Castelfidardo,
successivamente ristrutturato dal de Merode.
Dopo gli eventi della campagna delle
Marche e dell’Umbria è necessario ricordare la battaglia di Mentana (3 novembre
1867), dove le truppe pontificie al comando del generale Kanzler sconfiggono i garibaldini,
assicurando altri tre anni di vita allo Stato pontificio. È in tale contesto
che si colloca la vicenda, raccontata nelle pagine del Bandi, dei fucili Chassepot, utilizzata per nascondere invece la
sconfitta dell’esercito garibaldino. Il Chassepot è un fucile a retrocarica ad
ago di prima generazione, che tuttavia riusciva a sparare solo due salve,
dopodiché l’ago si deformava, tanto che fu ritirato qualche mese dopo. Tali
fucili, inoltre, non diedero bella prova nemmeno nel 1870 contro i tedeschi
durante la campagna di Sedan.
L’esercito del Kanzler è infine sciolto
il 21 settembre 1870 con la solenne benedizione papale in piazza San Pietro. Da
allora restano solo i 147 elementi della Guardia Svizzera, risalenti a papa
Giulio II, la Guardia Nobile e la gendarmeria. Ancor oggi, infatti, lo Stato
pontificio ha le proprie forze armate che mantengono le tradizione dell’Esercito
pontificio e di cui viene conservata memoria presso il museo di San Giovanni in
Laterano.
(1)
L’esercito del de La Moriciere.
L’esercito di de La Moriciere che va dall’8 aprile al 3 ottobre del
1860, termine della campagna in esame, è organizzato su tre brigate operative
ed una brigata di riserva, ma soprattutto si incardina su di un dispositivo stanziale
basato su gendarmerie e piazzeforti, le cui principali sono Roma ed Ancona.
Roma è logicamente la sede, mentre Ancona garantisce i collegamenti con Trieste
e l’Austria. Il dispositivo si compone anche di piazze di seconda classe, come
quella di Castel Sant’Angelo a Roma, e quelle presso le principali città
dell’Umbria e delle Marche, che garantiscono il punto di appoggio per la
manovra ed il sostegno logistico delle brigate operative.
Il de La Moriciere l’8 aprile 1860,
con il patrimonio del de Merode istituisce cinque battaglioni bersaglieri
procedendo al reclutamento soprattutto di croati, sloveni e tedeschi perché animati
da un forte sentimento anti-italiano. Queste unità reclutate al doppio del
soldo, dal Nunzio a Vienna e dal co-nunzio a Trieste vengono imbarcate alla
volta di Ancona e, quindi, instradate verso Foligno o Perugia. Il de La
Moriciere riesce a costituire, nel giro di tre mesi, cinque battaglioni
bersaglieri di cui uno prenderà poi parte allo scontro di Castelfidardo. Istituisce,
altresì, il corpo dei tiragliatori franco-belgi che diventerà poi il
battaglione degli zuavi pontifici. Questi sono dei legittimisti francesi e
belgi (spesso nobili di nascita) che combattono per il Papa, ma non volendo
entrare nel reggimento esteri si danno ordinamento in un distinto battaglione,
che il 1° gennaio del 1861 adotta l’uniforme zuava, che ricorda poi quella
francese e coloniale. Le truppe pontificie hanno tra le proprie file anche il
battaglione San Patrizio, composto da volontari provenienti dall’Irlanda, spinti
dall’estrema povertà che impone, quale alternativa all’emigrazione in America, la
possibilità di arruolarsi nell’Esercito del Papa. La loro uniforme non ha zaino
e buffetterie, ma dei larghi pantaloni dove si ripone l’occorrente.
Un’unità d’eccellenza dell’Esercito
pontificio è il battaglione Carabinieri svizzeri, specializzato nel tiro di precisione
con la carabina i cui componenti sono reclutati con gli stessi metodi della
Guardia Svizzera. I Carabinieri pontifici sono elementi eccellenti, come
dimostrato a Castelfidardo, che risultano fondamentali per il conseguimento del
successo nella prima parte dei combattimenti. In ultimo, le Guide di de La
Moriciere, cavalleria composta da nobili, costituita da circa 80 elementi che si muove con tutto
l’equipaggiamento al seguito.
L’esercito pontificio è strutturato
per contenere la rivoluzione, come dimostra l’episodio delle stragi di Perugia, e quindi esercitare pienamente il
controllo del territorio.
(2)
I Capi dell’esercito del de La
Moriciere.
I protagonisti sono il de La Moriciere
stesso ed il generale G. de Pimodan ex colonnello francese, sepolto a San Luigi
dei Francesi. Morto a Castelfidardo nell’ottobre del 1860, è divenuto il
simbolo e il martire della difesa dei diritti della Chiesa contro la
rivoluzione, la massoneria e i nemici di Pio IX.
4. LA
SITUAZIONE PARTICOLARE.
- La
battaglia delle Grotte di Castro (19 maggio 1860).
Ne corso della spedizione dei Mille,
Garibaldi contravvenendo agli ordini di Mazzini e soprattutto del Controllore
piemontese, sbarca a Talamone un contingente di 60 rivoluzionari che, al
comando dello Zanbianchi, reduce della Repubblica Romana e animato da un forte
sentimento anticlericale, tenta di portare la Rivoluzione nello Stato
Pontificio e direttamente nel Lazio. I 60 garibaldini, grazie ad ottime
informazioni, vengono individuati e attaccati dalla brigata del de Pimodan alle
Grotte di Castro il 19 maggio 1860 e, nel giro di tre ore, vengono inseguiti e
circondati. Durante gli scontri con le forze regolari pontificie vengono uccisi
19 uomini, mentre gli altri riguadagnano il confine, ma vengono poi arrestati e
condotti in fortezza a Bardonecchia dalle truppe sarde su ordine del Governo
piemontese. Tale episodio dimostra che l’Esercito pontificio è ben preparato e
addestrato alla difesa dello Stato ed al controllo del territorio, ma
soprattutto eccelle nella lotta contro rivoluzionaria.
- I
protagonisti.
Pio IX, dei Mastai Ferretti (1792-1878),
nato a Senigallia e legato alle famiglie marchigiane dei Castelferetti, già in
giovane età è iscritto alla massoneria, ma per volere della famiglia viene
mandato in seminario. Fu eletto Papa in quanto il vero candidato, il cardinale Tommaso
Gizzi “non giunse in
tempo per il conclave”.
Il Conclave decise allora per l’elezione del cardinale Mastai nella convinzione
che fosse dotato di scarsa personalità e potesse essere facilmente condizionabile.
Tale convinzione, invece, si rivelò ben presto errata. Il rapporto di Pio IX con
il regno delle due Sicilie di Francesco II può dirsi formidabile e molto
stretto, difatti, quando il Papa si rifugia a Gaeta dal 1848 al 1850 è lo
stesso Francesco II che lo protegge.
Ma la vera “anima nera” del governo
pontificio in quel tempo è il cardinale Giacomo Antonelli che rappresenta la Chiesa del passato
che si scontra con la realtà del presente. Il cardinale Antonelli è una figura
estremamente significativa del tempo e degli avvenimenti che seguirono.
Sul fronte opposto c’è il generale Manfredo
Fanti (1806-1865), fondatore dell’Esercito Italiano, che mise la firma sul decreto
che trasformava l’Armata sarda in Esercito Italiano il 4 maggio 1861. Il Fanti si
è formato sui campi di battaglia, dopo le sommosse del 1832 a Modena, con Cialdini,
Durant ed altri prende parte alle guerre spagnole. Un’altra figura centrale del
Risorgimento italiano è il generale Enrico Cialdini, già colonnello dell’esercito pontificio,
ferito a Cornuda, nel 1849 entra a far parte dell’Esercito sardo, comandante del
23° Reggimento a la Cava (20 marzo 1849) resiste allo stremo,
ma alla fine è circondato e si arrende.
È interessante notare come la vita
militare di questi personaggi del Risorgimento italiano sia caratterizzata dai
medesimi problemi operativi (mancanza di informazioni sui movimenti e le
posizioni del nemico), logistici (scarsità di risorse) e soprattutto di carenza
di bilancio, che oggigiorno assillano le F.A. italiane. Le lettere di questi
Ufficiali dimostrano come hanno affrontato i loro problemi e li hanno risolti,
rappresentando un riferimento anche per le situazioni attuali.
I veri protagonisti di queste vicende,
le figure di riferimento del Risorgimento italiano, che tengono le file sia
politiche, che militari sono il re Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini e
Garibaldi che, nonostante l’iconografia popolare voglia veder agire per un
unico scopo in qualità di “Padri della Patria”, sono in sostanza perennemente
in lotta tra loro, animati sia da scopi ed intenti spesso contrastanti, sia da
rivalità ed antipatie personali.
- Avvenimenti
e provvedimenti in vista del conflitto.
È opportuno, tuttavia, comprendere
quali siano i processi decisionali che portano all’Unità d’Italia e all’avvio
della campagna delle Marche e dell’Umbria del 1860.
I protagonisti, a dispetto delle profonde rivalità e delle diverse prospettive
politiche, sono accomunati dall’obiettivo politico-militare di ricondurre
l’intera Penisola sotto un’unica Autorità governativa e, quindi, di eliminare
il potere temporale del Papa che grava sulla collettività dell’Italia centrale.
Il Cavour, nella sua visione politica
di costruzione dell’Unità nazionale, è restio ad intraprendere azioni nel
centro Italia e nell’Umbria in particolare. Il suo timore è che un’ulteriore
annessione dei territori dell’Italia centrale possa compromette l’equilibrio
dell’intero progetto e farlo definitivamente naufragare. Di contro, Mazzini è dell’idea
opposta, preme affinché la Rivoluzione venga portata ovunque dal Partito
d’Azione, nella convinzione che la spinta destabilizzante agevoli i progetti di
unificazione dello Stato. Garibaldi, da uomo d’azione quale è, preme per
riprendere le operazioni, ma viene di fatto distratto dal centro Italia con la Spedizione
dei Mille nel Mezzogiorno. Infine, il re Vittorio Emanuele II, quale elemento
centrale di riferimento, si trova nella difficile condizione di dover gestire
la situazione sia per dare coerenza alle molteplici azioni, sia perché tutti i
personaggi agiscono per suo nome e conto.
Per Cavour e, quindi il Re, i progetti
di Mazzini e Garibaldi possono mettere in discussione gli equilibri dell’intera
Europa, soprattutto un’eventuale costituzione di una repubblica di stampo
“mazziniano” al centro del Mediterraneo è uno scenario assolutamente non accettabile
dalle principali Potenze (Inghilterra, Francia e Austria). Questo rappresenta
il punto centrale della questione a quel tempo. Il progetto di Mazzini e
Garibaldi, quest’ultimo già arrivato a Napoli con i Mille, prevede di entrare a
Roma, rovesciare il papato e ricostituire una repubblica sul modello di quella
Romana del 1849. È opportuno ricordare che la Repubblica Romana è stata
caratterizzata da una costituzione assolutamente innovativa per l’epoca: consentiva,
ad esempio, il diritto di voto alle donne, il divorzio e l’aborto.
Di fronte a questo pericolo reale, rappresentato dalle idee e dalle azioni del
Mazzini e Garibaldi, le grandi Potenze devono intervenire per non vedere compromesso
lo status quo. L’Austria, tuttavia, affronta
pesanti problemi in Oriente ed in Romania, la Francia è scossa al suo interno
per le lotte tra Conservatori, Cattolici e Progressisti e l’Inghilterra, da
ultima, non è in una situazione migliore. La Guerra Civile Americana (1860-65) vede,
altresì, impegnate fortemente sia la Francia, che l’Inghilterra nel tentativo
di riguadagnare una certa influenza sul continente americano. In questo quadro
generale alquanto instabile si inserisce, appunto, anche la situazione italiana
che fino ad allora non ha posto particolari preoccupazioni ai principali Attori
dell’epoca.
L’occasione comunque viene colta da Napoleone
III che, a causa delle tensioni interne con i Cattolici, intravede un’opportunità
per ridimensionarne il potere in Francia e indebolire il potere di Pio IX. La
proposta di Cavour di agire nel centro Italia è l’occasione favorevole per
ridurre lo stato della Chiesa al solo Patrimonio di San Pietro (Lazio), ma
contemporaneamente di sfruttare la situazione per obbligare il Papa a
intervenire in suo favore e contenere i Cattolici in Francia. La Cancelleria
sabauda, parimenti, deve entrare nelle Marche e nell’Umbria per raggiungere il
Meridione e porre un freno a Garibaldi che intanto sta risalendo vittorioso la
Penisola. Le Grandi potenze hanno, infatti, necessità di ricondurre la
Rivoluzione mazziniana in un alveo più moderato e conservatore per non
destabilizzare l’intera Penisola e la situazione esistente.
L’unico in grado, al momento, di
intervenire in Italia centrale è Cavour che può disporre dell’esercito di
Vittorio Emanuele II. L’Austria da parte sua si trova in una situazione d’impasse: un intervento contro il Regno
di Sardegna significherebbe riaprire il fronte sul Mincio (I Guerra
d’Indipendenza), contrariamente lasciare mano libera a Cavour equivarrebbe ad offrirgli
l’opportunità di conquistare l’Italia centrale.
L’Inghilterra, dal canto suo, non gradisce
la costituzione di una repubblica
progressista nell’alveo europeo, ma potrebbe accogliere favorevolmente
un ridimensionamento dell’influenza francese ed austriaca nella penisola
italiana e la costituzione di uno Stato unitario guidato dal massone Cavour e da
Vittorio Emanuele II più facilmente controllabile. Il principale e forse unico
obiettivo dell’Inghilterra è rappresentato dalla necessità di mantenere la
propria libertà sulle rotte commerciali del Mediterraneo e, con un’Italia unita
e amica, di fatto potrebbe esercitare il controllo su tali rotte marittime.
Alla fine di agosto del 1860, una
delegazione del Regno di Sardegna composta dal generale Cialdini e dal generale
Farini si reca a Chambery, per incontrare Napoleone III e metterlo a conoscenza
dell’intenzione di scendere in bassa Italia e ricondurre Garibaldi sotto il
controllo della politica del Cavour, impedendogli di fatto di giungere a Roma. Con
tale progetto il Cavour propone la creazione di un grande Stato italiano legato
alla Francia, in considerazione della gratitudine per l’intervento a proprio
favore. Napoleone III, a cui piace la proposta piemontese, tuttavia si vede
costretto a non accettare a causa delle forti pressioni avanzate dal partito
Cattolico rappresentato dalla moglie che interferisce con la politica
dell’Imperatore. In tale occasione comunque Napoleone III, pur non potendosi esprimere
a favore dell’iniziativa non la contrasta e, di fatto, autorizza tacitamente
l’azione del Regno di Sardegna. In tale frangente il Cavour,
ricevendo le rassicurazioni di non intervento di Francia e Austria, ha di fatto
mano libera nelle Marche e nell’Umbria, per andare incontro a Garibaldi e
impedirgli di portare a termine la propria campagna nel Sud d’Italia.
- I
piani operativi.
Importante per comprendere lo
svolgimento degli eventi è guardare agli atteggiamenti della diplomazia
pontificia. PIO IX e il cardinale Antonelli non sembrano intuire la gravità
della situazione, anzi sono convinti che la principale minaccia provenga dalla
campagna di Garibaldi nel Sud d’Italia e che, in caso di una invasione da parte
dell’esercito di Vittorio Emanuele II, la Francia intervenga a loro favore. A
tal proposito, anche il de La Moriciere è convinto che il pericolo maggiore
provenga dalla bassa Italia e lo dimostra il fatto che il grosso del
dispositivo militare pontificio sia schierato ed orientato a Sud.
I francesi sono disposti all’interno
del Patrimonio di San Pietro, il de La Moriciere con le tre Brigate operative
sull’asse Terni–Spoleto–Foligno ed il de Courten su Ancona per mantenere i
collegamenti marittimi con Trieste e l’Austria. Sul fronte Nord dello Stato
pontificio invece non c’è praticamente nulla.
Nel gioco delle grandi Potenze il
Regno di Sardegna ottiene il sostanziale via libera per invadere l’Italia
centrale e scendere nel Meridione.
Cavour rimane comunque molto scettico,
se non contrario, sull’opportunità di dare corso all’iniziativa nelle Marche e
nell’Umbria, ma il Re si impone e affida il comando dell’Esercito al generale Fanti
con l’ordine di preparare il piano di invasione che comprende anche l’obiettivo
occulto di fermare Garibaldi.
Il 7 settembre 1860, per il tramite del Conte della Minerva, è inviato da
Torino un ultimatum a Roma, che, a
causa di una tempesta nell’alto Tirreno, giunge il giorno successivo e viene immediatamente
respinto dal Antonelli.
Sono giorni estremamente difficili per il Cancelliere piemontese. Gli
ambasciatori di Russia, Francia, Austria e Inghilterra vengono ritirati da
Torino lasciando, almeno per alcuni giorni, il Regno di Sardegna formalmente
isolato diplomaticamente. Ciò fa temere la Cancelleria piemontese che ci sia un
cambiamento di fronte delle Potenze europee e, quindi, che venga a mancare il
promesso appoggio politico all’iniziativa piemontese. Contestualmente al
rifiuto dell’ultimatum da parte
dell’Antonelli, due reggimenti francesi si imbarcano a Tolone l’8 settembre. Tale
evento è differentemente interpretato dai due protagonisti. Per l’Antonelli,
Napoleone III viene in soccorso, mentre per il Cavour significa che la Francia
mantiene le promesse date, assicurandosi esclusivamente che il Lazio resti a Pio
IX.
Il piano di invasione piemontese
prevede lo schieramento di due Corpi d’Armata sardi nella Romagna esattamente nell’area
ad Ovest di Rimini per muovere verso Ancona secondo due direttrici parallele.
La prima esterna, con il IV Corpo d’Armata al comando del generale Cialdini,
marcia lungo la costa adriatica; quella interna, del V Corpo d’Armata, al
comando del generale Enrico Morozzo della Rocca, secondo l’ordine di Fanti,
marcia verso Perugia lungo l’asse San Sepolcro, Foligno, Perugia, Spoleto, Terni,
cioè lungo l’asse dove era schierato l’Esercito pontificio.
Il generale Fanti, comandante delle truppe
piemontesi, si ripromette di muovere con il IV Corpo d'Armata (la sinistra) lungo l'Adriatico, per
attirare il nemico verso Ancona. Il V Corpo (la destra) deve intanto avanzare
verso la valle del Tevere e tagliare la ritirata su Roma all'esercito
pontificio che, in tal modo, sarebbe costretto a dare battaglia in condizioni
di netta inferiorità numerica. Per tale motivo, nella convinzione che l’Esercito
pontificio rimanga schierato in Umbria per mantenersi alle spalle la base
logistica della piazza di Roma, viene dato, nell’assegnazione delle forze,
maggiore peso al V Corpo d’Armata. Questo rappresenta uno dei primi errori di
valutazione strategica dell’Esercito piemontese, a cui purtroppo ne seguono
altri di natura tattica, sebbene l’esito della campagna risulterà favorevole al
Regno di Sardegna.
La Reale flotta Sarda, al comando
dell’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, si deve portare di fronte ad Ancona
per imporre il blocco del porto e condurre cannoneggiamenti contro la
piazzaforte. Il Persano sarà poi il protagonista della battaglia di Lissa (1866)
che lo vedrà soccombere alla flotta austriaca, principalmente a causa della
scarsa amalgama della neo costituita flotta del Regno d’Italia con quella
ex-pontificia e quella ex-borbonica al comando dell’ammiraglio Artun.
- Le
forze in campo.
Le forze Sarde, che in quel momento
stanno marciando dalla Romagna verso il centro Italia, sono costituite da 35
mila uomini, 2500 cavalli e 77 pezzi d'artiglieria. La restante parte dell’Esercito
Sardo, costituito da 82 mila unità, è già schierato lungo il Mincio in funzione
di sicurezza. Le forze al comando del generale Fanti (IV Corpo d’Armata
composto dalla 4a e dalla 7a Divisione) marciano al
centro, quelle del generale Cialdini (V Corpo d’Armata composto dalla 1a
Divisione e dalla Divisione di riserva), muove lungo la litoranea adriatica ed
il collegamento tra i due corpi d’armata è costituito dalla 13a
Divisione al comando del generale Raffaele Cadorna, che poi guiderà la presa di
Roma. L’importanza della 13a Divisione risiede nel fatto che deve
supportare le azioni rivoluzionarie diversive che i patrioti innescheranno il
9, 10 e l’11 di settembre nel Nord delle Marche presso Pergola e Fossombrone,
con lo scopo di attirare le forze delle guarnigioni pontificie al di fuori
delle piazzeforti.
Il piano operativo delle forze
pontificie, al comando del generale de La Moriciere con il quartier generale a
Spoleto, è composto dalla Brigata Schmidt a Foligno, una seconda Brigata a
Terni sotto il de Pimodan e la Brigata riserva Cropt a Spoleto.
Su Ancona invece staziona la terza Brigata agli ordini di de Courten.
L’essenza del piano operativo risiede
nel dislocamento delle truppe francesi a presidio di Roma, per garantire la
sicurezza della piazza principale ed il grosso delle truppe schierate al centro,
in maniera tale da poter muovere più agevolmente e poter difendere sia il Lazio,
che le Marche. Il piano dispositivo prevede appunto le forze migliori (terza Brigata
operativa) a Sud perché da lì, ritengono, possa concretizzarsi la minaccia. Tutto
il dispositivo pontificio delle Forze Mobili è infatti orientato verso Sud.
Per ciò che riguarda le istallazioni
fisse, risulta d’importanza strategica per l’Esercito pontificio mantenere
aperti i porti ed i collegamenti con Ancona e Civitavecchia per consentire, in
caso di attacco da parte del Regno Sardo, l’arrivo di forze delle potenze amiche
di Austria e Francia che sarebbero certamente intervenute.
La piazzaforte di Ancona, collegata attraverso Colfiorito, lungo la strada
postale Roma–Ancona, è in grado di mantenere e garantire le comunicazioni con
l’Austria, mentre i collegamenti con la Francia sono assicurati tramite il
porto di Civitavecchia. I numeri delle forze dell’Esercito pontificio
consistono in circa 8500 uomini delle Forze Mobili e 7000-7500 nelle piazzeforti
per un totale di circa 16 mila uomini, molto ben preparati anche grazie
all’impegno del de La Moriciere che ha costituito un dispositivo estremamente
efficace.
Carlo Pisacane nel 1857 con 300 uomini tenta
di portare la Rivoluzione
nel napoletano e nel Sud, ma muore sotto le forcole per mano dei contadini.
Pisacane è stato uno dei massimi pensatori militari italiani dell’800, uno dei
migliori prodotti dell’istituto militare La Nunziatella che era
una fonte primaria di studi militari dell’epoca. Le sue idee innovative hanno influenzato tutta la seconda
metà del XIX secolo.
Le truppe borboniche erano ben piazzate sulle alture del
colle, in posizione favorevole, ottimamente armate e supportate da due moderni
pezzi di artiglieria da campagna ed un reparto di cavalleria. All'opposto, i garibaldini
si trovavano nelle posizioni sottostanti, senza l'appoggio di cavalleria e
dotati di armamenti superati e fatiscenti.
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