sabato 25 gennaio 2020
lunedì 20 gennaio 2020
La Guerra del 1866. III di Indipendenza 5 Custoza 2
a.
Avvenimenti e
provvedimenti in vista del conflitto
(1)
Politici e
diplomatici
Le
condizioni poste con la pace di Villafranca e il successivo trattato di Zurigo
del 10 novembre 1859 avevano deluso la speranza degli italiani che dopo la
valorosa vittoria di Solferino si aspettavano di veder concluso il processo di
unificazione. D’altronde la pace con l’Impero Austro-Ungarico non poteva che
essere un cessate il fuoco da momento in cui lo stesso imperatore si rifiutava
di riconoscere il Regno d’Italia, appellando la penisola come ancora come Regno
Sabaudo.
Tutti
gli attori dell’epoca erano consapevoli che prima o poi l’Italia avrebbe ripreso
le armi contro l’Austria non solo per l’inaccettabile sistemazione dei confini,
ma soprattutto perché l’Austria, conservando il suo dominio sul Veneto e la
disponibilità del Quadrilatero, nonché il desiderio di rivendicare quanto perso
sette anni prima, rappresentava il nemico numero uno. Il Regno d’Italia, per
contro, non era in grado di dichiarare compiuta “l’unità nazionale senza Venezia e Roma. E per ottenere Venezia si
doveva fare la guerra”[i].
L’Italia,
dopo estenuanti trattative diplomatiche, condotte dal Gen. La Marmora, il
Ministro de Barral e il Gen. Govone, inviato speciale a Berlino, ottenne quello
che aveva sempre desiderato: l’alleanza con una grande potenza militare.
L’Italia si era legata alla Prussia in virtù del trattato firmato l’8 aprile
1866. Si trattava di un trattato molto ambiguo soprattutto perché influenzato
dalla difficile figura di Bismark, di natura offensiva e difensiva che
prevedeva quattro condizioni: 1) la guerra deve essere condotta con ogni
energia e nessuna delle due potenze alleate può concludere un armistizio o una
pace senza il consenso dell’altra; 2) tale consenso non può essere rifiutato se
l’Austria cede all’Italia il Veneto e alla Prussia territori equivalenti; 3) il
trattato deve considerarsi senza efficacia se la Prussia non dichiara guerra
all’Austria entro tre mesi dalla firma; 4) l’Italia s’impegna a inviare la sua
flotta in aiuto a quella prussiana nel caso in cui l’Austria invii navi da
guerra nel Baltico.
Come
si può notare, il trattato non prevedeva il carattere di reciprocità in quanto
impegnava l’Italia a entrare in guerra nel caso in cui la Prussia l’avesse
dichiarata, ma non il contrario. Né prevedeva l’intervento di quest’ultima se
fosse stata l’Austria a prendere l’iniziativa contro l’Italia. Tale sbilanciamento,
fu espressamente sottolineato da Bismark che, pur avendo riconosciuto
l’inopportunità di lasciare l’Italia da sola a combattere, affermò
ripetutamente che il trattato non impegnava la Prussia a dichiarare guerra
all’Austria nel caso in cui questa si fosse trovata in conflitto con l’Italia.
In realtà, Bismak in quei giorni fece sapere, attraverso gli opportuni canali
diplomatici che in caso di intervento militare austriaco contro l’Italia, la
Prussia avrebbe onorato i propri obblighi di amicizia nei confronti
dell’alleato italiano. Per ogni altra ipotesi Bismark consigliava vivamente gli
italiani di astenersi da ogni tipo di iniziativa offensiva.
Purtroppo,
la situazione stava prendendo una strada completamente diversa: in Austria
giungevano, da fonti informative di dubbia veridicità, informazioni su presunti
armamenti e movimenti militari italiani sui confini. Erano delle esagerazioni,
ma più che sufficienti per accelerare la mobilitazione e la preparazione
dell’Armata austriaca del Sud ubicata in Veneto[ii].
Nonostante
ciò, qualche settimana dopo (5 maggio 1866), l’Austria, che fino quel momento
si era sempre rifiutata di discutere la questione veneta con l’Italia, offre la
cessione di Venezia alla Francia affinché la girasse all’Italia. I diplomatici
italiani, dietro sollecitazione del Presidente del Consiglio, rifiutano
categoricamente in quanto giungeva troppo tardi per poter essere motivo di
rottura degli accordi con la Prussia.
Agli
inizi di maggio la situazione era quanto più che mai in stallo e le strade per
una soluzione diplomatica sembravano quasi impossibili. La Francia, nel
tentativo di fermare ogni focolaio di guerra, si fa addirittura promotrice di
un Congresso ove discutere tutte le pendenze territoriali, compreso il Veneto.
(2)
Economico
finanziari.
Dopo
la crisi politica del dicembre 1865, era diventato Ministro della Guerra il
Gen. Ignazio de Genova di Pettinengo che, tra i primi atti ministeriali, impose
un taglio di bilancio di circa undici milioni. Questo in realtà si andava ad aggiungere
ad un ulteriore taglio, pluriennale, disposto dal precedente Ministro della
Guerra, Gen. Petitti, di circa nove milioni. Alla vigilia della guerra, quindi,
l’esercito poteva contare su un budget
decurtato di circa venti milioni che aveva imposto delle economie soprattutto
per quanto riguarda i richiami. L’Esercito Italiano entrava in guerra con circa
30000 uomini in meno. Questa carenza si fece sentire soprattutto a livello
tattico, dove le compagnie di fanteria potevano contare su una forza di circa
125 uomini contro i 165/170 delle compagnie imperiali.
b.
Considerazioni
riepilogative
(1)
Correlazione fra
intendimenti e possibilità: valutazione dell’adeguatezza delle forze in campo
in relazione agli intendimenti ed agli scopi
Nel
1848 Carlo Alberto con un piccolo esercito mosse guerra all’imponente armata
austriaca di Radestzky e ripiegando su Milano perdeva rovinosamente. Diciotto
anni dopo, nel 1866, l’Esercito del Regno d’Italia, con una popolazione sette
volte quella del Piemonte e con mezzi militari decisamente superiori scende in
campo contro l’Austria, che nel Veneto dispone di un esercito circa la metà del
suo. L’occasione è favorevolissima. Le forze che l’Italia ha messo in campo
sono sicuramente adeguate allo scopo di sconfiggere gli Austriaci e
costringerli a cedere il Veneto.
Per
contro, seppur inferiore da un punto di vista quantitativo, l’esercito
imperiale, che si propone di difendersi appoggiandosi ai presidi e alle
fortezze presenti sul terreno, ha una forza adeguata agli scopi.
(2)
Rapporti di
potenza fra le parti contendenti: capacità rispettiva di sostenere sforzi
prolungati
A
parte la superiorità numerica, l’esercito imperiale era comunque in condizioni
più favorevoli di quelle italiane: unità di comando, libertà di comando,
maggiore amalgama e addestramento dei reparti di fanteria e cavalleria,
superiore conoscenza del terreno erano i fattori che potevano fare la
differenza. L’impossibilità di utilizzare una fitta ed efficiente rete
ferroviaria, inoltre, rallentavano i movimenti soprattutto di chi attacca. Le
condizioni climatiche e del terreno completavano una situazione quasi
proibitiva per coloro che si ponevano l’obiettivo di attaccare agevolando, per
contro, coloro che, godendo di posizioni fortificate, dovevano difendere.
Inoltre,
l’aver scomposto il contingente in due armate, che avrebbero agito su due
fronti completamente separati, non permetteva all’esercito italiano di
concentrare il massimo sforzo in un punto rendendo più debole il dispositivo.
Infine,
il supporto a sostenere la campagna esisteva: al momento della dichiarazione di
guerra il paese era saldamente stretto intorno all’esercito così come la
monarchia appariva popolare e nel pieno diritto di porsi alla guida delle armi
e della nazione. Anche quando le confuse notizie dal fronte non erano
confortanti e facevano intuire che le cose non erano andate come si sperava,
l’opinione pubblica reagì molto bene dando ulteriore fiducia all’esercito e ai
suoi comandanti. In sintesi, alla vigilia della guerra tutto lascia presupporre
che non ci siano ostacoli per l’Esercito Italiano a sostenere sforzi prolungati
Per
quanto, riguarda l’esercito imperiale, nonostante le forze e l’organizzazione
lascino presupporre la possibilità di intrattenere una campagna di lunga
durata, si ritiene che molto dipende dalle operazioni in Boemia, dove il grosso
deve scontrarsi con l’esercito prussiano di von Moltke.
1.
a. Eventuali operazioni precedenti
Non ci sono
operazioni precedenti nell’ambito della stessa campagna.
b. L’ambiente operativo
(1) Delimitazione ed inquadramento
La Battaglia di Custoza, episodio
che va inquadrato nell’ambito della guerra austro-prussiana del 1866, si è svolta nel Veneto in un’area
limitata ad ovest dal fiume Mincio, da Peschiera a Mantova, per circa 34
chilometri e dal cosiddetto Serraglio, l’area compresa tra il Mincio e il Po,
malsana, impedita da canali e acquitrini, tutta inondabile e larga soltanto 11
chilometri. A sud l’area delle operazioni è delimitata dal fiume Po nella sua
interezza (145 chilometri), spalleggiato da grandi paludi, canali e risaie: una
zona intricatissima, facile da difendere e quasi impossibile da aggredire.
Infine ad est e a nord rispettivamente dagli allineamenti Verona-Legnago e il
Lago di Garda-Verona. All’interno di questa area si aggiunge un altro ostacolo,
che correva parallelo lungo la linea di frontiera, l’Adige. Insomma, date le
caratteristiche del terreno le fortezze di Peschiera, Verona, Legnago e
Mantova, e l’area tra esse racchiusa, rappresentavano una porzione di terreno
praticamente inespugnabile che offriva numerose posizioni difensive. Il tratto
lungo il Mincio tra Peschiera e Mantova era forse il più accessibile.
(2) Caratteristiche fisiche
Le Alpi descrivono una fitta catena circolare che
separa l’Italia dalla Francia, dalla Svizzera e dall’Austria. Le piogge e le
nevicate frequenti, mantengono l’alimentazione di una enorme quantità di acqua
che si riversa in tanti laghi, fiumi e riviere. Il Po, il più grande di queste
linee idriche, attraversando tutta l’Italia settentrionale, si getta
nell’Adriatico dopo aver raccolto un’infinità di affluenti minori che scendono
dalle Alpi. Tra questi è opportuno ricordare il Sesia, il Ticino, l’Adda, il
Mincio. L’Adige, il Brenta, il Piave, il Tagliamento e l’Isonzo si riversano
direttamente nell’Adriatico.
In particolare, il Veneto, che insieme a Roma
mancavano per completare l’unificazione nazionale, all’epoca era quella l’area
compresa tra il Ticino e l’Isonzo da una parte, il Po e le alpi dall’altra.
Tale collocazione “condanna” tutt’ora il Veneto ad essere attraversata da una
fitta rete idrica. In particolare, dalla punta meridionale del Lago di Garda,
Peschiera, esce il Mincio, il quale dopo aver formato acquitrini e laghi
artificiali soprattutto nei pressi di Mantova si getta nel Po a Governolo. Più
ad est, scorre l’Adige fino a Legnago da dove inizia a scorrere parallelamente
al Po per poi riversarsi nell’Adriatico. Tutta l’area compresa tra il basso Po
e l’Adige è paludoso, caratterizzato da un ginepraio di canali di irrigazione
che la rendono assai poco praticabile.
Andando
più nel dettaglio, il terreno dove si sono ripetutamente scontrati di due
eserciti presenta una parte collinare e una parte di pianura. Il terreno
collinoso, attraversato peraltro anche dal fiume Tione, che sorge a Pastrengo e
scorre verso sud passando per Villafranca, in tutto il suo sviluppo
longitudinale può essere considerato formato da tre gruppi
collinari-pianeggianti: uno occidentale dal Mincio alla rotabile
Castelnuovo-Valeggio, quello centrale da questa strada fino a Guastalla e
quello orientale da quest’ultima fino a Verona[iii].
Le
alture di Custoza, dove si decise l’esito della campagna, sono particolarmente
importanti perché sono costituite da due allineamenti, con andamento nord-est,
che si raccordano e degradano appunto nel paese di Custoza. Da queste alture
guardando a nord e nord-ovest si scorge una fronte che è la continuazione del
Torrione, Monte Sabbione, Monte Vento e Santa Lucia, ottimi punti di
osservazione[iv].
La coltivazione nell’area non era particolarmente fitta, a causa della natura
sassosa di questo terreno collinoso
A
tutto ciò va aggiunto che la campagna del 1866, si è svolta a partire dalla
terza decade di giugno quando nell’area crescono in maniera rigogliosa infinite
piantagioni di granturchi e gelsi che, per loro natura, costituivano un
naturale rallentamento alle operazioni militari.
(3) Caratteristiche antropiche
La popolazione sparsa in molte frazioni e generalmente dedita
all'agricoltura. Però non mancavano nel paese
alcune industrie, come fabbriche di paste alimentari e filande da seta. Vi era
anche una fabbrica di alcool ed era esercitata limitatamente la tessitura
casalinga. Già allora il commercio era assai animato e vi si tenevano mercati
importanti.
La
rete stradale era ottima e garantiva agli austriaci le linee di comunicazione
tra le Alpi, il Po e il Mare Adriatico. Ciò permetteva di raggiungere tutte le
principali città dell’area di operazioni entro 24 ore di marcia. Oltre a ciò
Venezia, Padova, Vicenza, Verona, Peschiera e Mantova comunicavano tra di loro
per mezzo della ferrovia. Nelle vicinanze della riva sinistra del Mincio,
l’unica strada buona che si sviluppava da nord a sud era quella che collegava
Castelnuovo a Valeggio. Diverse e in buono stato erano invece le strade che
attraversavano la pianura, soprattutto quelle che passavano per Villafranca. In
tal senso, Villafranca rappresentava, quindi, il centro nevralgico delle
principali vie di comunicazione.
Anche Valeggio
costituiva un centro molto importante dal punto di vista militare non solo
perché dominava il ponte sul Mincio (Borghetto), ma anche perché segnava il
punto in cui la zona collinare lasciava il passo alla pianura, perché era un
crocevia di interesanti vie di comunicazione e perché da li partiva la rotabile
per Castelnovo.
(4) Eventuali precedenti storici
L’area
intorno a Custoza è stata già teatro di scontro nel 1848 tra Regno di Sardegna
e Impero Austriaco durante la I Guerra di Indipendenza. I due eserciti si
scontrarono nei pressi di Custoza per il controllo delle pianure del Veneto.
Dal 24 luglio, manovrando nei settori più deboli, la saldatura del Corpo di
Armata, gli austriaci, in una serie di scontri vittoriosi in più località,
riescono a prevalere in quella che poi fu chiamata la Battaglia di Custoza. Il
27 luglio, Carlo Alberto si ritira su Milano fra il generale disappunto dei
lombardi.
Durante
questa campagna è emersa la grande forza, la grande organizzazione, la
formazione, ma soprattutto la disciplina dell’Esercito Austriaco. Radestzky, a
capo del contingente austriaco, diede prova di capacità militari inconfutabili,
benché non abbia capitalizzato il massimo possibile dalle circostanze. Per
contro, le truppe piemontesi per quanto visto sul campo dimostrarono di essere
ben lontani dal dimostrare un’organizzazione tipica di un esercito regolare. La
loro organizzazione si è rivelata talmente problematica da non poter resistere
ad una campagna di quattro mesi. Le carenze riguardano soprattutto la
disciplina tra i capi e i subordinati. In realtà nella campagna del 1848, le
forze piemontesi hanno compiuto atti eroici, estemporanei, purtroppo non
illuminati da combinazioni intelligenti senza le quali non si raggiungono
risultati importanti.
c.
I piani operativi
(1) Generalità
Il
17 giugno 1866 scoppiano le ostilità tra Prussia e Austria e l’Italia, in virtù
del Trattato firmato qualche mese prima, dichiara guerra all’Austria. Infatti,
il 20 giugno 1866 alle ore 08:30 il Colonnello Pompeo Bariola, dello Stato
Maggiore, recapitava al Tenente Maresciallo barone Sztankovic, Comandante della
fortezza di Mantova, la dichiarazione di guerra all’Austria: “[…] tendendo tuttora schiava una delle più
nobili nostre province, trasformandola in un vasto campo trincerato, […], le
ostilità avranno principio dopo tre giorni dalla data della presente; a meno
che Vostra Altezza Imperiale non volesse aderire a questa dilazione, nel qual
caso la pregherei di volermelo significare […]”[v]
(2) Esercito Italiano
Riuscire
a capire quale fosse il piano di campagna dell’Esercito Italiano è impresa
assai ardua in quanto il piano doveva essere presentato in una conferenza che
si tenne a Bologna il 17 giugno 1866 tra La Marmora e Cialdini. Di quel
colloqui non esistono documenti che attestino le decisioni che furono adottate.
Nessuno era
presente a quell’incontro, ma dall’analisi dei fatti dei giorni successivi si
può arguire che i due generali si siano lasciati con la convinzione che l'uno
avesse aderito alle idee dell'altro. E invece ognuno era rimasto fedele al
proprio piano: il Cialdini, pensava che sul Po si dovesse sviluppare
l'operazione principale, mentre sul Mincio si doveva condurre un’operazione
diversiva. Al contrario, La Marmora credeva che l’operazione principale doveva
essere svolta sul Mincio e di diversione quella del Po. Non a
caso La Marmora poco tempo dopo disse: “la
nostra azione rispettiva era troppo evidente perché fosse d’uopo di prendere
accordi speciali. Ciascuno dalla parte sua avrebbe agito secondo le occorrenze
colla massima energia per modo di battere o paralizzare il nemico attraendolo
ora da una parte, ora dall’altra”[vi]. Da
queste parole si evince chiaramente che l’Italia non aveva un piano, ma due
diversi modi di vedere e di intraprendere le operazioni. A queste posizioni
corrispondeva anche una diversa visione strategica a livello politico. Una, che
faceva capo proprio al Generale Enrico Cialdini, che l’aveva elaborata e vedeva
anche i favori degli alleati prussiani, su tutti del Generale von Moltke,
prevedeva Bologna come base delle operazioni, l’invasione del Veneto dal basso
Po, con attraversamento del fiume a monte di Ferrara, e l’avanzata su Rovigo.
Per favorire l’operazione occorrevano alcune azioni diversive e di disturbo sul
Mincio che avrebbero impegnato il grosso dell’Armata imperiale all’interno del
Quadrilatero. Una volta raggiunto Rovigo e passato l’Adige, l’Armata del Po
avrebbe avuto la strada spianata verso Padova, Vicenza e Venezia, puntando
sulle più vitali comunicazioni del Veneto fin dentro il cuore dell’impero. Tale
visione, inoltre, rendeva possibile anche un contributo della flotta italiana
nell’Adriatico e l’infiltrazione di un
corpo di volontari in Dalmazia e in Ungheria con il compito di innescare una
rivolta popolare in grado di minare la solidità dell’Impero. Questa linea di
azione aveva il vantaggio di evitare “di rimanere invischiati in lunghe e
faticose operazioni all’interno del Quadrilatero, con poche possibilità di
successo”[vii] come
era accaduto nel 1848.
L’altra visione, completamente opposta,
elaborata da La Marmora e altri generali dell’ex esercito piemontese,
prevedeva, invece, Piacenza e Cremona come basi di operazione, eseguire delle
operazioni dimostrative sul basso Po, e di colpire direttamente il Quadrilatero
da Ovest: attraversare il fiume Mincio tra Peschiera e Mantova e forzare le
fortezze nel più breve tempo possibile grazie alla superiorità di forze
disponibili o, in alternativa, ingaggiare battaglia all’interno dello stesso.
Alla
vigilia della guerra, l’Italia pensava ad un teatro di operazioni in cui
avrebbero agito due armate: una sul Mincio, Comandata dal Generale La Marmora,
e una sul Po, comandata dal Generale Cialdini. La prima, “più sotto la mano del comando in capo dell’Esercito”[viii],
avrebbe ricevuto ordini e diposizioni direttamente, la seconda, da considerare
più come un distaccamento, avrebbe agito secondo le indicazioni ritenute più
idonee ed opportune da parte del comandante[ix] che
aveva l’unico obbligo di tenere informato il Comando Supremo. L’operazione che l’esercito italiano si
accingeva a condurre era guidata da un piano che rappresentava soltanto il giusto
compromesso fra due soluzioni alternative volte a soddisfare Cialdini e La
Marmora per di più viziato da un’incomprensione di fondo: il Generale La
Marmora si aspettava una dimostrazione sul basso Po e il Generale Cialdini si
aspettava una dimostrazione sul Mincio. Non a caso, allorquando nel mattino del
24 giugno 1866, il Generale Cialdini ricevette dal Re Vittorio Emanuele il
telegramma con cui gli si comunicava l’inizio delle ostilità, rispondeva di “essere desolato notizia che Vostra Maestà mi
dà. Generale La Marmora mi aveva promesso di limitarsi a semplice
dimostrazione. Voglio sperare non infausto esito giornata, ecc.”[x]. L’unica
questione su cui si era fermamente concordi era il ruolo del Corpo di Volontari
comandato da Garibaldi: non sbarcare in Dalmazia, per essere infiltrato in
Ungheria, ma, attraverso azioni dimostrative verso il Tirolo, coprire l’estrema
sinistra del dispositivo sul Mincio e la Lombardia.
(3) Esercito Imperiale
L’Armata
Austriaca del Sud, abilmente condotta dall’Arciduca Alberto, di fronte ad un
nemico così schierato, aveva ampia libertà di manovrare per linee interne[xi].
L’obiettivo era, pertanto, quello di gravitare con il grosso delle forze
laddove veniva percepita la minaccia principale, cioè dal Mincio, battere il
nemico colpendolo sul fianco sinistro e rivolgere l’attenzione al basso Po,
dove gli ostacoli naturali delle Polesine avrebbero rallentato l’avanzata
dell’armata del Generale Cialdini. Tutta la manovra era rivolta a salvaguardare
il possesso della città di Verona, vero centro di gravità del dispositivo
austriaco di stanza nel Veneto, in virtù della posizione strategica, delle
fortificazioni, delle linee di comunicazione che la attraversavano e delle
risorse ivi stoccate.
A
tal fine era necessario innanzitutto attirare il grosso dell’Esercito Italiano
nel Quadrilatero e per fare questo occorreva far credere di essere sulla
difensiva. Per fare ciò, l’Arciduca Alberto, mantenne i tre Corpi d’Armata a
sua disposizione nei pressi di Montorio, Pastrengo, San Martino, San Michele e
San Bonifacio e ordinò di lasciare intatti i ponti sul fiume per facilitare
l'avanzata italiana verso il Quadrilatero. Alla vigilia delle ostilità, tutte
le forze a disposizione dell’Armata austriaca del sud erano concentrate e
disposte in modo da far credere agli italiani di rimanere in posizione
difensiva dietro l’Adige. In realtà, pronte a muovere per essere impiegate
contro le unità italiane provenienti da ovest.
Sul
fronte del basso Po, l’Esercito Imperiale lasciava soltanto una brigata, il
grosso della quale doveva attestarsi a Rovigo.
In
quanto al Tirolo, il piano prevedeva realmente una difesa, ma attiva.[xii]
(il prossimo post sarà pubblicato in data 10 febbraio 2020)
[i] Gioannini M. e Massobrio G., Custoza
1866 – La via italiana alla sconfitta,
Rizzoli, Milano, 2003, p. 102
[xi] Per linee interne, quando una massa centrale interposta fra
due o più masse nemiche opera in modo da impegnare battaglia separatamente con
ciascuna di esse.
mercoledì 15 gennaio 2020
venerdì 10 gennaio 2020
La Guerra del 1866. III di Indipendenza 4 La Battaglia di Custoza 1
1. SITUAZIONE GENERALE
a.
Situazione
generale militare
(1)
I quadri – le
forze – i mezzi
(a)
I capi:
organizzazione del vertice operativo
In
analogia all’Esercito Prussiano, l’Italia adottò la soluzione per la quale il
Re Vittorio Emanuele II avesse il comando supremo e che lo esercitasse
attraverso il suo Capo di Stato Maggiore, individuato nel Generale Alfonso La
Marmora, che fino a due giorni prima dell’inizio delle ostilità ricopriva
l’incarico di Presidente del Consigli dei Ministri. Il Ministro della Guerra
era il Generale Ignazio de Genova di Pettinengo.
Il
contingente destinato alla campagna contro l’Austria fu organizzato in:
· Armata del Mincio,
sotto il comando del Re in persona e quindi del Gen. La Marmora,
· Armata del Po
comandata dal Generale Cialdini.
Il
Comandante in Capo delle Forze Armate era l’Imperatore Francesco Giuseppe.
L’Esercito si componeva di un’Armata dell’Iser, di un’Armata del Nord e
un’Armata del Sud.
L’Armata
del Sud, impegnata nella campagna contro l’Italia, aveva da poco cambiato il
comandante supremo: al Maresciallo Benedek, assegnato per operare sul fronte
principale in Boemia, era subentrato l’Arciduca d’Austria, feldmaresciallo
Alberto Federico Rodolfo, figlio dell’Arciduca Carlo.
(b)
Gli SM: la loro
organizzazione ordinativa
Erano
passati “soli cinque anni dalla
costituzione dell’Italia in Regno, e, oltre allo straordinario ingrandimento
dell’Esercito piemontese, si era dovuto procedere alla fusione nel regio
Esercito di una parte dei quadri dell’Esercito delle Due Sicilie e
dell’Esercito garibaldino. Con finanze assai ristrette, si erano dovuti
fabbricare materiali in grandissima copia, creare dotazioni, stabilire magazzini
e depositi, creare stati maggiori, quadri, ecc. […]”[i].L’Italia
non aveva ancora una tradizionale efficienza nel servizio di stato maggiore. I
generali La Marmora, Della Rocca e Cialdini erano ottimi ufficiali con una
splendida carriera militare alle spalle, ma con nessuna esperienza di comando
di un enorme contingente e per di più costituito da soldati regolari. Il Gen.
La Marmora che assunse poi l’incarico di Capo di Stato Maggiore era quello più
impegnato dal punto di vista politico e che quindi aveva una percezione della
realtà dello strumento militare veramente limitata. Se a questo aggiungiamo una
certa “gelosia” tra i grandi generali italiani, ma soprattutto il desiderio del
Re Vittorio Emanuele II di dirigere le operazioni, insieme al Gen. Petitti, è facile
intuire che il Comando Supremo delle operazioni, così come l’organizzazione
degli stati maggiori, non poteva che presentare dei problemi che si sarebbero
ripercossi sulle operazioni.
Lo
stato maggiore, come inteso dai prussiani e anche dagli austro-ungarici, non
era mai esistito nell’Esercito Sardo e continuò a non esistere anche nell’Esercito
Italiano. Gli Ufficiali di stato maggiore, al termine dei corsi frequentati,
avevano dismesso lo studio che diventava privilegio di pochissimi volenterosi.
Gli stessi inadeguati insegnamenti strategici, tattici, procedurali e storici
erano stati dimenticati per cui nel 1866, pochi erano gli Ufficiali si stato
maggiore preparati.
Benché
non abbondante di vittorie, la tradizione militare austro-ungarica era molto solida.
Anzi, si può dire che la vitalità dell’Impero di Francesco Giuseppe risiedeva
proprio nell’esercito. Pur tuttavia, la principale cagione dei mali era la
scarsità di grandi condottieri. Non mancavano i generali dotti e preparati, ma
i geni militari rimanevano soffocati dalla ferrea disciplina, dalle
consuetudini e dai pregiudizi da cui era emerso nel recente passato solo
l’Arciduca Carlo, padre di Alberto.
(c)
Le forze
terrestri: unità in genere, di pronto impiego, di riserva
Senza
contare i volontari di Garibaldi, circa 38000 uomini, le truppe di presidio e
di completamento, l’Esercito Italiano aveva una forza effettiva di 22000
uomini, 37000 cavalli e 456 cannoni. Fu disposto il richiamo delle classi 1834
– 1840 (prima categoria) e 1840 – 1841 (seconda categoria). Le operazioni di
mobilitazione furono complicatissime a causa della configurazione della
penisola italiana e per lo scarso sviluppo delle ferrovie. L’organizzazione di
quel contingente fu opera del Gen. Petitti.
Per
resistere al contingente italiano, gli austriaci avevano organizzato un
esercito che poteva contare di fortissimi appoggi e fortificazioni
inespugnabili. Ma erano comunque necessarie numerose guarnigioni ed era
inevitabile un certo disseminamento di forze. Dei dieci corpi costituenti
l’Esercito Imperiale, ben sette furono destinati all’Armata del Nord, insieme a
cinque Divisioni di Cavalleria, e una riserva generale di artiglieria per un
totale di circa 185000 uomini. Soltanto tre Corpi di Armata vennero destinati
all’Armata del Sud, con una Brigata di Cavalleria di riserva, per un totale di
circa 145000 uomini, 15000 cavalli e 192 pezzi di artiglieria. Escludendo le
forze di presidio e di guarnigione e delle forze destinate nel Tirolo, dove fu
inviato un contingente autonomo sotto il Comando del Gen. Von Kuhn, per le
operazioni nel Veneto erano disponibili 94500 uomini, 12500 cavalli e 168
pezzi.
(d)
Le dottrine
operative: la loro definizione in base
agli intendimenti politici, di ordine strategico, tattico e potenziale
In
Italia, come del resto anche nell’Impero, gli insegnamenti delle guerre
napoleoniche erano stati lasciati volutamente nel dimenticatoio, a differenza
di alcuni generali prussiani della scuola di Clausewitz. Le campagne
napoleoniche avevano insegnato, ad esempio, che un corpo d’armata non poteva
avere più di quattro divisioni, se non compromettendo la mobilità e la
manovrabilità. Ma i principi dell’arte della guerra non erano conosciuti, se
non superficialmente. Per dirlo in altre parole, gli studi militari in Italia
non erano presi in seria considerazione. Certamente la dottrina tattica
presentava segni di invecchiamento e necessitava di rinnovamento, ma quando
applicata correttamente era ancora motivo di successo.
Anche
per quanto riguarda l’Impero, all’epoca dei fatti pochi generali “sapevano”
fare la guerra e uno di questi era il Comandante dell’Armata del Sud, l’Arciduca Alberto, figlio primogenito del
grande Arciduca Carlo d’Asburgo che aveva battuto Napoleone nel 1809. Egli si
era formato studiando le campagne, specialmente quelle del padre. Da questi
insegnamenti aveva appreso soprattutto la fermezza d’animo, il carattere
serioso, ma soprattutto l’idea secondo la quale non bisognava lanciarsi alla
carica fino ad un punto di non ritorno. Al contrario, bisognava avere
l’accortezza di tenere sempre un atteggiamento guardingo e difensivo. E questo
concetto volle applicarlo integralmente nella campagna contro gli italiani,
definiti da lui stesso rapaci. Quindi
come l’Armata del Nord, comandata dal Gen. Benedek, in Italia l’Arciduca
Alberto si proponeva di fare una guerra difensiva, favorita dal terreno e dalle
fortificazioni presenti nel Veneto.
( il prossimo post sarà pubblicato in data 20 gennaio 2020)
domenica 5 gennaio 2020
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