L'Ultima difesa pontificia di Ancona . Gli avvenimenti 7 -29 settembre 1860

Investimento e Presa di Ancona

Investimento e Presa di Ancona
20 settembre - 3 ottbre 1860

L'Ultima difesa pontificia di Ancona 1860

L'Ultima difesa pontificia di Ancona 1860
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Onore ai Caduti

Onore ai Caduti
Sebastopoli. Vallata di Baraclava. Dopo la cerimonia a ricordo dei soldati sardi caduti nella Guerra di Crimea 1854-1855. Vedi spot in data 22 gennaio 2013

Il combattimento di Loreto detto di Castelfidardo 18 settembre 1860

Il combattimento di Loreto detto di Castelfidardo 18 settembre 1860
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La sintesi del 1860

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Il combattimento di Loreto, detto di Castelfidardo 18 settembre 1860

Il Volume di Massimo Coltrinari, Il Combattimento di Loreto detto di Castelfidardo, 18 settembre 1860, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2009, pagine 332, euro 21, ISBN 978-88-6134-379-5, è disponibile in
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lunedì 20 gennaio 2020

La Guerra del 1866. III di Indipendenza 5 Custoza 2


a.       Avvenimenti e provvedimenti in vista del conflitto
(1)    Politici e diplomatici
Le condizioni poste con la pace di Villafranca e il successivo trattato di Zurigo del 10 novembre 1859 avevano deluso la speranza degli italiani che dopo la valorosa vittoria di Solferino si aspettavano di veder concluso il processo di unificazione. D’altronde la pace con l’Impero Austro-Ungarico non poteva che essere un cessate il fuoco da momento in cui lo stesso imperatore si rifiutava di riconoscere il Regno d’Italia, appellando la penisola come ancora come Regno Sabaudo.
Tutti gli attori dell’epoca erano consapevoli che prima o poi l’Italia avrebbe ripreso le armi contro l’Austria non solo per l’inaccettabile sistemazione dei confini, ma soprattutto perché l’Austria, conservando il suo dominio sul Veneto e la disponibilità del Quadrilatero, nonché il desiderio di rivendicare quanto perso sette anni prima, rappresentava il nemico numero uno. Il Regno d’Italia, per contro, non era in grado di dichiarare compiuta “l’unità nazionale senza Venezia e Roma. E per ottenere Venezia si doveva fare la guerra[i].
L’Italia, dopo estenuanti trattative diplomatiche, condotte dal Gen. La Marmora, il Ministro de Barral e il Gen. Govone, inviato speciale a Berlino, ottenne quello che aveva sempre desiderato: l’alleanza con una grande potenza militare. L’Italia si era legata alla Prussia in virtù del trattato firmato l’8 aprile 1866. Si trattava di un trattato molto ambiguo soprattutto perché influenzato dalla difficile figura di Bismark, di natura offensiva e difensiva che prevedeva quattro condizioni: 1) la guerra deve essere condotta con ogni energia e nessuna delle due potenze alleate può concludere un armistizio o una pace senza il consenso dell’altra; 2) tale consenso non può essere rifiutato se l’Austria cede all’Italia il Veneto e alla Prussia territori equivalenti; 3) il trattato deve considerarsi senza efficacia se la Prussia non dichiara guerra all’Austria entro tre mesi dalla firma; 4) l’Italia s’impegna a inviare la sua flotta in aiuto a quella prussiana nel caso in cui l’Austria invii navi da guerra nel Baltico.
Come si può notare, il trattato non prevedeva il carattere di reciprocità in quanto impegnava l’Italia a entrare in guerra nel caso in cui la Prussia l’avesse dichiarata, ma non il contrario. Né prevedeva l’intervento di quest’ultima se fosse stata l’Austria a prendere l’iniziativa contro l’Italia. Tale sbilanciamento, fu espressamente sottolineato da Bismark che, pur avendo riconosciuto l’inopportunità di lasciare l’Italia da sola a combattere, affermò ripetutamente che il trattato non impegnava la Prussia a dichiarare guerra all’Austria nel caso in cui questa si fosse trovata in conflitto con l’Italia. In realtà, Bismak in quei giorni fece sapere, attraverso gli opportuni canali diplomatici che in caso di intervento militare austriaco contro l’Italia, la Prussia avrebbe onorato i propri obblighi di amicizia nei confronti dell’alleato italiano. Per ogni altra ipotesi Bismark consigliava vivamente gli italiani di astenersi da ogni tipo di iniziativa offensiva.
Purtroppo, la situazione stava prendendo una strada completamente diversa: in Austria giungevano, da fonti informative di dubbia veridicità, informazioni su presunti armamenti e movimenti militari italiani sui confini. Erano delle esagerazioni, ma più che sufficienti per accelerare la mobilitazione e la preparazione dell’Armata austriaca del Sud ubicata in Veneto[ii].
Nonostante ciò, qualche settimana dopo (5 maggio 1866), l’Austria, che fino quel momento si era sempre rifiutata di discutere la questione veneta con l’Italia, offre la cessione di Venezia alla Francia affinché la girasse all’Italia. I diplomatici italiani, dietro sollecitazione del Presidente del Consiglio, rifiutano categoricamente in quanto giungeva troppo tardi per poter essere motivo di rottura degli accordi con la Prussia.
Agli inizi di maggio la situazione era quanto più che mai in stallo e le strade per una soluzione diplomatica sembravano quasi impossibili. La Francia, nel tentativo di fermare ogni focolaio di guerra, si fa addirittura promotrice di un Congresso ove discutere tutte le pendenze territoriali, compreso il Veneto.
(2)    Economico finanziari.
Dopo la crisi politica del dicembre 1865, era diventato Ministro della Guerra il Gen. Ignazio de Genova di Pettinengo che, tra i primi atti ministeriali, impose un taglio di bilancio di circa undici milioni. Questo in realtà si andava ad aggiungere ad un ulteriore taglio, pluriennale, disposto dal precedente Ministro della Guerra, Gen. Petitti, di circa nove milioni. Alla vigilia della guerra, quindi, l’esercito poteva contare su un budget decurtato di circa venti milioni che aveva imposto delle economie soprattutto per quanto riguarda i richiami. L’Esercito Italiano entrava in guerra con circa 30000 uomini in meno. Questa carenza si fece sentire soprattutto a livello tattico, dove le compagnie di fanteria potevano contare su una forza di circa 125 uomini contro i 165/170 delle compagnie imperiali.   
b.       Considerazioni riepilogative
(1)    Correlazione fra intendimenti e possibilità: valutazione dell’adeguatezza delle forze in campo in relazione agli intendimenti ed agli scopi
Nel 1848 Carlo Alberto con un piccolo esercito mosse guerra all’imponente armata austriaca di Radestzky e ripiegando su Milano perdeva rovinosamente. Diciotto anni dopo, nel 1866, l’Esercito del Regno d’Italia, con una popolazione sette volte quella del Piemonte e con mezzi militari decisamente superiori scende in campo contro l’Austria, che nel Veneto dispone di un esercito circa la metà del suo. L’occasione è favorevolissima. Le forze che l’Italia ha messo in campo sono sicuramente adeguate allo scopo di sconfiggere gli Austriaci e costringerli a cedere il Veneto.
Per contro, seppur inferiore da un punto di vista quantitativo, l’esercito imperiale, che si propone di difendersi appoggiandosi ai presidi e alle fortezze presenti sul terreno, ha una forza adeguata agli scopi. 
(2)    Rapporti di potenza fra le parti contendenti: capacità rispettiva di sostenere sforzi prolungati
A parte la superiorità numerica, l’esercito imperiale era comunque in condizioni più favorevoli di quelle italiane: unità di comando, libertà di comando, maggiore amalgama e addestramento dei reparti di fanteria e cavalleria, superiore conoscenza del terreno erano i fattori che potevano fare la differenza. L’impossibilità di utilizzare una fitta ed efficiente rete ferroviaria, inoltre, rallentavano i movimenti soprattutto di chi attacca. Le condizioni climatiche e del terreno completavano una situazione quasi proibitiva per coloro che si ponevano l’obiettivo di attaccare agevolando, per contro, coloro che, godendo di posizioni fortificate, dovevano difendere.
Inoltre, l’aver scomposto il contingente in due armate, che avrebbero agito su due fronti completamente separati, non permetteva all’esercito italiano di concentrare il massimo sforzo in un punto rendendo più debole il dispositivo.
Infine, il supporto a sostenere la campagna esisteva: al momento della dichiarazione di guerra il paese era saldamente stretto intorno all’esercito così come la monarchia appariva popolare e nel pieno diritto di porsi alla guida delle armi e della nazione. Anche quando le confuse notizie dal fronte non erano confortanti e facevano intuire che le cose non erano andate come si sperava, l’opinione pubblica reagì molto bene dando ulteriore fiducia all’esercito e ai suoi comandanti. In sintesi, alla vigilia della guerra tutto lascia presupporre che non ci siano ostacoli per l’Esercito Italiano a sostenere sforzi prolungati
Per quanto, riguarda l’esercito imperiale, nonostante le forze e l’organizzazione lascino presupporre la possibilità di intrattenere una campagna di lunga durata, si ritiene che molto dipende dalle operazioni in Boemia, dove il grosso deve scontrarsi con l’esercito prussiano di von Moltke.       
1.        
a.       Eventuali operazioni precedenti
Non ci sono operazioni precedenti nell’ambito della stessa campagna.
b.       L’ambiente operativo
(1)  Delimitazione ed inquadramento
La Battaglia di Custoza, episodio che va inquadrato nell’ambito della guerra austro-prussiana del 1866, si è svolta nel Veneto in un’area limitata ad ovest dal fiume Mincio, da Peschiera a Mantova, per circa 34 chilometri e dal cosiddetto Serraglio, l’area compresa tra il Mincio e il Po, malsana, impedita da canali e acquitrini, tutta inondabile e larga soltanto 11 chilometri. A sud l’area delle operazioni è delimitata dal fiume Po nella sua interezza (145 chilometri), spalleggiato da grandi paludi, canali e risaie: una zona intricatissima, facile da difendere e quasi impossibile da aggredire. Infine ad est e a nord rispettivamente dagli allineamenti Verona-Legnago e il Lago di Garda-Verona. All’interno di questa area si aggiunge un altro ostacolo, che correva parallelo lungo la linea di frontiera, l’Adige. Insomma, date le caratteristiche del terreno le fortezze di Peschiera, Verona, Legnago e Mantova, e l’area tra esse racchiusa, rappresentavano una porzione di terreno praticamente inespugnabile che offriva numerose posizioni difensive. Il tratto lungo il Mincio tra Peschiera e Mantova era forse il più accessibile.   
(2)  Caratteristiche fisiche
Le Alpi descrivono una fitta catena circolare che separa l’Italia dalla Francia, dalla Svizzera e dall’Austria. Le piogge e le nevicate frequenti, mantengono l’alimentazione di una enorme quantità di acqua che si riversa in tanti laghi, fiumi e riviere. Il Po, il più grande di queste linee idriche, attraversando tutta l’Italia settentrionale, si getta nell’Adriatico dopo aver raccolto un’infinità di affluenti minori che scendono dalle Alpi. Tra questi è opportuno ricordare il Sesia, il Ticino, l’Adda, il Mincio. L’Adige, il Brenta, il Piave, il Tagliamento e l’Isonzo si riversano direttamente nell’Adriatico.
In particolare, il Veneto, che insieme a Roma mancavano per completare l’unificazione nazionale, all’epoca era quella l’area compresa tra il Ticino e l’Isonzo da una parte, il Po e le alpi dall’altra. Tale collocazione “condanna” tutt’ora il Veneto ad essere attraversata da una fitta rete idrica. In particolare, dalla punta meridionale del Lago di Garda, Peschiera, esce il Mincio, il quale dopo aver formato acquitrini e laghi artificiali soprattutto nei pressi di Mantova si getta nel Po a Governolo. Più ad est, scorre l’Adige fino a Legnago da dove inizia a scorrere parallelamente al Po per poi riversarsi nell’Adriatico. Tutta l’area compresa tra il basso Po e l’Adige è paludoso, caratterizzato da un ginepraio di canali di irrigazione che la rendono assai poco praticabile.
Andando più nel dettaglio, il terreno dove si sono ripetutamente scontrati di due eserciti presenta una parte collinare e una parte di pianura. Il terreno collinoso, attraversato peraltro anche dal fiume Tione, che sorge a Pastrengo e scorre verso sud passando per Villafranca, in tutto il suo sviluppo longitudinale può essere considerato formato da tre gruppi collinari-pianeggianti: uno occidentale dal Mincio alla rotabile Castelnuovo-Valeggio, quello centrale da questa strada fino a Guastalla e quello orientale da quest’ultima fino a Verona[iii].
Le alture di Custoza, dove si decise l’esito della campagna, sono particolarmente importanti perché sono costituite da due allineamenti, con andamento nord-est, che si raccordano e degradano appunto nel paese di Custoza. Da queste alture guardando a nord e nord-ovest si scorge una fronte che è la continuazione del Torrione, Monte Sabbione, Monte Vento e Santa Lucia, ottimi punti di osservazione[iv]. La coltivazione nell’area non era particolarmente fitta, a causa della natura sassosa di questo terreno collinoso   
A tutto ciò va aggiunto che la campagna del 1866, si è svolta a partire dalla terza decade di giugno quando nell’area crescono in maniera rigogliosa infinite piantagioni di granturchi e gelsi che, per loro natura, costituivano un naturale rallentamento alle operazioni militari.
(3)  Caratteristiche antropiche
La popolazione sparsa in molte frazioni e generalmente dedita all'agricoltura. Però non mancavano nel paese alcune industrie, come fabbriche di paste alimentari e filande da seta. Vi era anche una fabbrica di alcool ed era esercitata limitatamente la tessitura casalinga. Già allora il commercio era assai animato e vi si tenevano mercati importanti. 
La rete stradale era ottima e garantiva agli austriaci le linee di comunicazione tra le Alpi, il Po e il Mare Adriatico. Ciò permetteva di raggiungere tutte le principali città dell’area di operazioni entro 24 ore di marcia. Oltre a ciò Venezia, Padova, Vicenza, Verona, Peschiera e Mantova comunicavano tra di loro per mezzo della ferrovia. Nelle vicinanze della riva sinistra del Mincio, l’unica strada buona che si sviluppava da nord a sud era quella che collegava Castelnuovo a Valeggio. Diverse e in buono stato erano invece le strade che attraversavano la pianura, soprattutto quelle che passavano per Villafranca. In tal senso, Villafranca rappresentava, quindi, il centro nevralgico delle principali vie di comunicazione.
Anche Valeggio costituiva un centro molto importante dal punto di vista militare non solo perché dominava il ponte sul Mincio (Borghetto), ma anche perché segnava il punto in cui la zona collinare lasciava il passo alla pianura, perché era un crocevia di interesanti vie di comunicazione e perché da li partiva la rotabile per Castelnovo.
(4)  Eventuali precedenti storici
L’area intorno a Custoza è stata già teatro di scontro nel 1848 tra Regno di Sardegna e Impero Austriaco durante la I Guerra di Indipendenza. I due eserciti si scontrarono nei pressi di Custoza per il controllo delle pianure del Veneto. Dal 24 luglio, manovrando nei settori più deboli, la saldatura del Corpo di Armata, gli austriaci, in una serie di scontri vittoriosi in più località, riescono a prevalere in quella che poi fu chiamata la Battaglia di Custoza. Il 27 luglio, Carlo Alberto si ritira su Milano fra il generale disappunto dei lombardi.
Durante questa campagna è emersa la grande forza, la grande organizzazione, la formazione, ma soprattutto la disciplina dell’Esercito Austriaco. Radestzky, a capo del contingente austriaco, diede prova di capacità militari inconfutabili, benché non abbia capitalizzato il massimo possibile dalle circostanze. Per contro, le truppe piemontesi per quanto visto sul campo dimostrarono di essere ben lontani dal dimostrare un’organizzazione tipica di un esercito regolare. La loro organizzazione si è rivelata talmente problematica da non poter resistere ad una campagna di quattro mesi. Le carenze riguardano soprattutto la disciplina tra i capi e i subordinati. In realtà nella campagna del 1848, le forze piemontesi hanno compiuto atti eroici, estemporanei, purtroppo non illuminati da combinazioni intelligenti senza le quali non si raggiungono risultati importanti.
c.        I piani operativi
(1)  Generalità
Il 17 giugno 1866 scoppiano le ostilità tra Prussia e Austria e l’Italia, in virtù del Trattato firmato qualche mese prima, dichiara guerra all’Austria. Infatti, il 20 giugno 1866 alle ore 08:30 il Colonnello Pompeo Bariola, dello Stato Maggiore, recapitava al Tenente Maresciallo barone Sztankovic, Comandante della fortezza di Mantova, la dichiarazione di guerra all’Austria: “[…] tendendo tuttora schiava una delle più nobili nostre province, trasformandola in un vasto campo trincerato, […], le ostilità avranno principio dopo tre giorni dalla data della presente; a meno che Vostra Altezza Imperiale non volesse aderire a questa dilazione, nel qual caso la pregherei di volermelo significare […][v]    
(2)  Esercito Italiano
Riuscire a capire quale fosse il piano di campagna dell’Esercito Italiano è impresa assai ardua in quanto il piano doveva essere presentato in una conferenza che si tenne a Bologna il 17 giugno 1866 tra La Marmora e Cialdini. Di quel colloqui non esistono documenti che attestino le decisioni che furono adottate. Nessuno era presente a quell’incontro, ma dall’analisi dei fatti dei giorni successivi si può arguire che i due generali si siano lasciati con la convinzione che l'uno avesse aderito alle idee dell'altro. E invece ognuno era rimasto fedele al proprio piano: il Cialdini, pensava che sul Po si dovesse sviluppare l'operazione principale, mentre sul Mincio si doveva condurre un’operazione diversiva. Al contrario, La Marmora credeva che l’operazione principale doveva essere svolta sul Mincio e di diversione quella del Po. Non a caso La Marmora poco tempo dopo disse: “la nostra azione rispettiva era troppo evidente perché fosse d’uopo di prendere accordi speciali. Ciascuno dalla parte sua avrebbe agito secondo le occorrenze colla massima energia per modo di battere o paralizzare il nemico attraendolo ora da una parte, ora dall’altra[vi]. Da queste parole si evince chiaramente che l’Italia non aveva un piano, ma due diversi modi di vedere e di intraprendere le operazioni. A queste posizioni corrispondeva anche una diversa visione strategica a livello politico. Una, che faceva capo proprio al Generale Enrico Cialdini, che l’aveva elaborata e vedeva anche i favori degli alleati prussiani, su tutti del Generale von Moltke, prevedeva Bologna come base delle operazioni, l’invasione del Veneto dal basso Po, con attraversamento del fiume a monte di Ferrara, e l’avanzata su Rovigo. Per favorire l’operazione occorrevano alcune azioni diversive e di disturbo sul Mincio che avrebbero impegnato il grosso dell’Armata imperiale all’interno del Quadrilatero. Una volta raggiunto Rovigo e passato l’Adige, l’Armata del Po avrebbe avuto la strada spianata verso Padova, Vicenza e Venezia, puntando sulle più vitali comunicazioni del Veneto fin dentro il cuore dell’impero. Tale visione, inoltre, rendeva possibile anche un contributo della flotta italiana nell’Adriatico e l’infiltrazione  di un corpo di volontari in Dalmazia e in Ungheria con il compito di innescare una rivolta popolare in grado di minare la solidità dell’Impero. Questa linea di azione aveva il vantaggio di evitare “di rimanere invischiati in lunghe e faticose operazioni all’interno del Quadrilatero, con poche possibilità di successo”[vii] come era accaduto nel 1848.
L’altra visione, completamente opposta, elaborata da La Marmora e altri generali dell’ex esercito piemontese, prevedeva, invece, Piacenza e Cremona come basi di operazione, eseguire delle operazioni dimostrative sul basso Po, e di colpire direttamente il Quadrilatero da Ovest: attraversare il fiume Mincio tra Peschiera e Mantova e forzare le fortezze nel più breve tempo possibile grazie alla superiorità di forze disponibili o, in alternativa, ingaggiare battaglia all’interno dello stesso.
Alla vigilia della guerra, l’Italia pensava ad un teatro di operazioni in cui avrebbero agito due armate: una sul Mincio, Comandata dal Generale La Marmora, e una sul Po, comandata dal Generale Cialdini. La prima, “più sotto la mano del comando in capo dell’Esercito[viii], avrebbe ricevuto ordini e diposizioni direttamente, la seconda, da considerare più come un distaccamento, avrebbe agito secondo le indicazioni ritenute più idonee ed opportune da parte del comandante[ix] che aveva l’unico obbligo di tenere informato il Comando Supremo.  L’operazione che l’esercito italiano si accingeva a condurre era guidata da un piano che rappresentava soltanto il giusto compromesso fra due soluzioni alternative volte a soddisfare Cialdini e La Marmora per di più viziato da un’incomprensione di fondo: il Generale La Marmora si aspettava una dimostrazione sul basso Po e il Generale Cialdini si aspettava una dimostrazione sul Mincio. Non a caso, allorquando nel mattino del 24 giugno 1866, il Generale Cialdini ricevette dal Re Vittorio Emanuele il telegramma con cui gli si comunicava l’inizio delle ostilità, rispondeva di “essere desolato notizia che Vostra Maestà mi dà. Generale La Marmora mi aveva promesso di limitarsi a semplice dimostrazione. Voglio sperare non infausto esito giornata, ecc.”[x]. L’unica questione su cui si era fermamente concordi era il ruolo del Corpo di Volontari comandato da Garibaldi: non sbarcare in Dalmazia, per essere infiltrato in Ungheria, ma, attraverso azioni dimostrative verso il Tirolo, coprire l’estrema sinistra del dispositivo sul Mincio e la Lombardia.
(3)  Esercito Imperiale
L’Armata Austriaca del Sud, abilmente condotta dall’Arciduca Alberto, di fronte ad un nemico così schierato, aveva ampia libertà di manovrare per linee interne[xi]. L’obiettivo era, pertanto, quello di gravitare con il grosso delle forze laddove veniva percepita la minaccia principale, cioè dal Mincio, battere il nemico colpendolo sul fianco sinistro e rivolgere l’attenzione al basso Po, dove gli ostacoli naturali delle Polesine avrebbero rallentato l’avanzata dell’armata del Generale Cialdini. Tutta la manovra era rivolta a salvaguardare il possesso della città di Verona, vero centro di gravità del dispositivo austriaco di stanza nel Veneto, in virtù della posizione strategica, delle fortificazioni, delle linee di comunicazione che la attraversavano e delle risorse ivi stoccate.
A tal fine era necessario innanzitutto attirare il grosso dell’Esercito Italiano nel Quadrilatero e per fare questo occorreva far credere di essere sulla difensiva. Per fare ciò, l’Arciduca Alberto, mantenne i tre Corpi d’Armata a sua disposizione nei pressi di Montorio, Pastrengo, San Martino, San Michele e San Bonifacio e ordinò di lasciare intatti i ponti sul fiume per facilitare l'avanzata italiana verso il Quadrilatero. Alla vigilia delle ostilità, tutte le forze a disposizione dell’Armata austriaca del sud erano concentrate e disposte in modo da far credere agli italiani di rimanere in posizione difensiva dietro l’Adige. In realtà, pronte a muovere per essere impiegate contro le unità italiane provenienti da ovest.
Sul fronte del basso Po, l’Esercito Imperiale lasciava soltanto una brigata, il grosso della quale doveva attestarsi a Rovigo.
In quanto al Tirolo, il piano prevedeva realmente una difesa, ma attiva.[xii]
(il prossimo post sarà pubblicato in data 10 febbraio 2020)

[i] Gioannini M. e Massobrio G., Custoza 1866 – La via italiana alla sconfitta,  Rizzoli, Milano, 2003, p. 102
[ii] Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 94, pp. 89-94.
[iii]   Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 89.
[iv] Pollio A., Op. Cit., p. 91.
[v] Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 115.
[vi] Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 29.
[vii] Gioannini M. e Massobrio G., Op. Cit., p. 104.
[viii]  Pollio A., Ibidem.
[ix] Idem
[x] Pollio A., Op. Cit., p. 31
[xi] Per linee interne, quando una massa centrale interposta fra due o più masse nemiche opera in modo da impegnare battaglia separatamente con ciascuna di esse.
[xii] Pollio A., Op. Cit., p. 37.

venerdì 10 gennaio 2020

La Guerra del 1866. III di Indipendenza 4 La Battaglia di Custoza 1


1.       SITUAZIONE GENERALE
a.       Situazione generale militare
(1)      I quadri – le forze – i mezzi
(a)    I capi: organizzazione del vertice operativo
In analogia all’Esercito Prussiano, l’Italia adottò la soluzione per la quale il Re Vittorio Emanuele II avesse il comando supremo e che lo esercitasse attraverso il suo Capo di Stato Maggiore, individuato nel Generale Alfonso La Marmora, che fino a due giorni prima dell’inizio delle ostilità ricopriva l’incarico di Presidente del Consigli dei Ministri. Il Ministro della Guerra era il Generale Ignazio de Genova di Pettinengo.
Il contingente destinato alla campagna contro l’Austria fu organizzato in:
·       Armata del Mincio, sotto il comando del Re in persona e quindi del Gen. La Marmora,
·       Armata del Po comandata dal Generale Cialdini.
Il Comandante in Capo delle Forze Armate era l’Imperatore Francesco Giuseppe. L’Esercito si componeva di un’Armata dell’Iser, di un’Armata del Nord e un’Armata del Sud.
L’Armata del Sud, impegnata nella campagna contro l’Italia, aveva da poco cambiato il comandante supremo: al Maresciallo Benedek, assegnato per operare sul fronte principale in Boemia, era subentrato l’Arciduca d’Austria, feldmaresciallo Alberto Federico Rodolfo, figlio dell’Arciduca Carlo.
(b)    Gli SM: la loro organizzazione ordinativa
Erano passati “soli cinque anni dalla costituzione dell’Italia in Regno, e, oltre allo straordinario ingrandimento dell’Esercito piemontese, si era dovuto procedere alla fusione nel regio Esercito di una parte dei quadri dell’Esercito delle Due Sicilie e dell’Esercito garibaldino. Con finanze assai ristrette, si erano dovuti fabbricare materiali in grandissima copia, creare dotazioni, stabilire magazzini e depositi, creare stati maggiori, quadri, ecc. […][i].L’Italia non aveva ancora una tradizionale efficienza nel servizio di stato maggiore. I generali La Marmora, Della Rocca e Cialdini erano ottimi ufficiali con una splendida carriera militare alle spalle, ma con nessuna esperienza di comando di un enorme contingente e per di più costituito da soldati regolari. Il Gen. La Marmora che assunse poi l’incarico di Capo di Stato Maggiore era quello più impegnato dal punto di vista politico e che quindi aveva una percezione della realtà dello strumento militare veramente limitata. Se a questo aggiungiamo una certa “gelosia” tra i grandi generali italiani, ma soprattutto il desiderio del Re Vittorio Emanuele II di dirigere le operazioni, insieme al Gen. Petitti, è facile intuire che il Comando Supremo delle operazioni, così come l’organizzazione degli stati maggiori, non poteva che presentare dei problemi che si sarebbero ripercossi sulle operazioni.
Lo stato maggiore, come inteso dai prussiani e anche dagli austro-ungarici, non era mai esistito nell’Esercito Sardo e continuò a non esistere anche nell’Esercito Italiano. Gli Ufficiali di stato maggiore, al termine dei corsi frequentati, avevano dismesso lo studio che diventava privilegio di pochissimi volenterosi. Gli stessi inadeguati insegnamenti strategici, tattici, procedurali e storici erano stati dimenticati per cui nel 1866, pochi erano gli Ufficiali si stato maggiore preparati.
Benché non abbondante di vittorie, la tradizione militare austro-ungarica era molto solida. Anzi, si può dire che la vitalità dell’Impero di Francesco Giuseppe risiedeva proprio nell’esercito. Pur tuttavia, la principale cagione dei mali era la scarsità di grandi condottieri. Non mancavano i generali dotti e preparati, ma i geni militari rimanevano soffocati dalla ferrea disciplina, dalle consuetudini e dai pregiudizi da cui era emerso nel recente passato solo l’Arciduca Carlo, padre di Alberto.
(c)     Le forze terrestri: unità in genere, di pronto impiego, di riserva
Senza contare i volontari di Garibaldi, circa 38000 uomini, le truppe di presidio e di completamento, l’Esercito Italiano aveva una forza effettiva di 22000 uomini, 37000 cavalli e 456 cannoni. Fu disposto il richiamo delle classi 1834 – 1840 (prima categoria) e 1840 – 1841 (seconda categoria). Le operazioni di mobilitazione furono complicatissime a causa della configurazione della penisola italiana e per lo scarso sviluppo delle ferrovie. L’organizzazione di quel contingente fu opera del Gen. Petitti.
Per resistere al contingente italiano, gli austriaci avevano organizzato un esercito che poteva contare di fortissimi appoggi e fortificazioni inespugnabili. Ma erano comunque necessarie numerose guarnigioni ed era inevitabile un certo disseminamento di forze. Dei dieci corpi costituenti l’Esercito Imperiale, ben sette furono destinati all’Armata del Nord, insieme a cinque Divisioni di Cavalleria, e una riserva generale di artiglieria per un totale di circa 185000 uomini. Soltanto tre Corpi di Armata vennero destinati all’Armata del Sud, con una Brigata di Cavalleria di riserva, per un totale di circa 145000 uomini, 15000 cavalli e 192 pezzi di artiglieria. Escludendo le forze di presidio e di guarnigione e delle forze destinate nel Tirolo, dove fu inviato un contingente autonomo sotto il Comando del Gen. Von Kuhn, per le operazioni nel Veneto erano disponibili 94500 uomini, 12500 cavalli e 168 pezzi.
(d)    Le dottrine operative: la loro definizione in base agli intendimenti politici, di ordine strategico, tattico e potenziale
In Italia, come del resto anche nell’Impero, gli insegnamenti delle guerre napoleoniche erano stati lasciati volutamente nel dimenticatoio, a differenza di alcuni generali prussiani della scuola di Clausewitz. Le campagne napoleoniche avevano insegnato, ad esempio, che un corpo d’armata non poteva avere più di quattro divisioni, se non compromettendo la mobilità e la manovrabilità. Ma i principi dell’arte della guerra non erano conosciuti, se non superficialmente. Per dirlo in altre parole, gli studi militari in Italia non erano presi in seria considerazione. Certamente la dottrina tattica presentava segni di invecchiamento e necessitava di rinnovamento, ma quando applicata correttamente era ancora motivo di successo.
Anche per quanto riguarda l’Impero, all’epoca dei fatti pochi generali “sapevano” fare la guerra e uno di questi era il Comandante dell’Armata del Sud,  l’Arciduca Alberto, figlio primogenito del grande Arciduca Carlo d’Asburgo che aveva battuto Napoleone nel 1809. Egli si era formato studiando le campagne, specialmente quelle del padre. Da questi insegnamenti aveva appreso soprattutto la fermezza d’animo, il carattere serioso, ma soprattutto l’idea secondo la quale non bisognava lanciarsi alla carica fino ad un punto di non ritorno. Al contrario, bisognava avere l’accortezza di tenere sempre un atteggiamento guardingo e difensivo. E questo concetto volle applicarlo integralmente nella campagna contro gli italiani, definiti da lui stesso rapaci. Quindi come l’Armata del Nord, comandata dal Gen. Benedek, in Italia l’Arciduca Alberto si proponeva di fare una guerra difensiva, favorita dal terreno e dalle fortificazioni presenti nel Veneto.  
( il prossimo post sarà pubblicato in data 20 gennaio 2020)

[i] Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 3

domenica 5 gennaio 2020

QUADERNI .4 del 2019

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