L'Ultima difesa pontificia di Ancona . Gli avvenimenti 7 -29 settembre 1860

Investimento e Presa di Ancona

Investimento e Presa di Ancona
20 settembre - 3 ottbre 1860

L'Ultima difesa pontificia di Ancona 1860

L'Ultima difesa pontificia di Ancona 1860
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Onore ai Caduti

Onore ai Caduti
Sebastopoli. Vallata di Baraclava. Dopo la cerimonia a ricordo dei soldati sardi caduti nella Guerra di Crimea 1854-1855. Vedi spot in data 22 gennaio 2013

Il combattimento di Loreto detto di Castelfidardo 18 settembre 1860

Il combattimento di Loreto detto di Castelfidardo 18 settembre 1860
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La sintesi del 1860

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Il combattimento di Loreto, detto di Castelfidardo 18 settembre 1860

Il Volume di Massimo Coltrinari, Il Combattimento di Loreto detto di Castelfidardo, 18 settembre 1860, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2009, pagine 332, euro 21, ISBN 978-88-6134-379-5, è disponibile in
II Edizione - Accademia di Oplologia e Militaria
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sabato 20 febbraio 2021

De Quattrebarbes e l'interpretazione dello stemma di Ancona

   

Origine storica ed interpretazione dello stemma del Comune di Ancona:

una confusione infinita.

 

Come autore del saggio “Il guerriero d’oro armato di spada sul cavallo corrente e lo stemma della città di Ancona”, pubblicato nel 2009 da Libreria Canonici Ancona, ricevo con piacere dal generale Massimo Coltrinari una richiesta di intervento su una per me nuova ed “originalissima” interpretazione dello stemma comunale dorico, da Lui trovata negli scritti di  Teodore de Quatrebarbes, discendente da  famiglia (ramo della Roussardière) di antica cavalleria angioina, comandante nell’Armata Pontificia..                                                                                        

Il de Quatrebarbes afferma con ineffabile sicurezza che lo stemma di Ancona , ostentante in alto la sua Pezza Onorevole, il Capo d’Angiò canonico azzurro (al lambello rosso di quattro pendenti con tre gigli d’oro sottostanti allineati), rappresenta il re Carlo I d’Angiò , figlio del re di Francia Luigi VIII e fratello del re di Francia Luigi IX, detto il Santo. Mentre rimando, necessariamente, alla lettura della mia analisi storica riguardante l’origine ed interpretazione dello stemma anconitano, non ho alcuna esitazione nell’ affermare che la sorprendente idea del de Quatrebarbes non ha alcun fondamento. L’unico, fondato legame storico di Carlo I con Ancona è rappresentato infatti dalla crociata contro l’ultimo re svevo Manfredi di Sicilia, indetta da Papa Clemente IV : Carlo, proclamato comandante in capo della crociata ed investito re di Sicilia, sconfisse a Benevento Manfredi il 26 Febbraio 1266, e con tale vittoria fece sì che tutta l’Italia passasse sotto il dominio dei Guelfi, ad eccezione di Verona e Pavia, che rimasero filo-imperiali. In tale occasione, per ricompensare il libero Comune di Ancona dell’aiuto prestatogli con un contingente militare, Carlo I concesse che lo stemma della città fosse arricchito con i suoi simboli, il rastrello con i gigli di Francia. Il de Quatrebarbes evidentemente ignorava che lo stemma anconitano -come ho potuto dimostrare nel mio saggio-  era già stato adottato con molta probabilità nei primi due decenni del Duecento, se non prima, e  ne è sicuramente attestato l’utilizzo nel 1236,nel Patto d’amicizia stipulato tra Ancona e Traù (Trogir,città dalmata) e datato Venerdì 11 Luglio 1236, sotto il quale pendeva ..”il sigillo di cera con la figura di un uomo a cavallo in atto di ferire con la spada alla mano destra”). Ne consegue quindi, a parte qualsiasi considerazione di opportunità storica e politica (ovviamente inesistente, pur non ignorando il minimo aggancio della vocazione guelfa della città), che secondo l’idea del de Quatrebarbes  Ancona avesse inspiegabilmente scelto, “anticipando la Storia”,  di rappresentare Carlo d’Angiò nel suo  stemma già prima che nascesse, o, nella più favorevole delle ipotesi, in “tenera età” dello stesso ( era nato il 21 marzo 1226 !) . Formulo qui l’ipotesi che il de Quatrebarbes si sia lasciato fortemente influenzare, nella sua infondata convinzione, dalle ascendenze angioine della sua antica famiglia, ottenendo così il risultato di ritagliarsi un ruolo non secondario tra quei travisatori della realtà storica, che per loro ignoranza hanno formulato nel tempo, ricevendo spesso  ampi e convinti consensi, le più grossolane e a volte comiche castronerie circa l’interpretazione dello stemma anconitano,  riuscendo ad individuare nel “guerriero d’oro armato di spada sul cavallo corrente” Artasso, principe bretone, San Ciriaco catafratto al galoppo (sic!), l’eroina Stamira(una donna!), il Cavaliere Inesistente(figura puramente simbolica), San Giorgio , il  marchese germanico Werner Urslingen (del seguito imperiale di Federico Barbarossa)….. Purtroppo certi studiosi (o sedicenti tali), anziché mettersi umilmente al servizio della Storia, mettono spesso la Storia al loro servizio.

Giuseppe  Barbone

mercoledì 10 febbraio 2021

La battaglia di Solferino e San Martino e la nascita della Croce Rossa

 



di

Osvaldo Biribicchi

 

 

A sud del Lago di Garda, a Solferino e San Martino, il 24 giugno 1859 fu combattuta l’ultima battaglia della Seconda Guerra d’Indipendenza italiana, una guerra innescata dall’incontro tra Cavour e Napoleone III, il 21 luglio 1858, a Plombières nella Francia orientale. In quella occasione fu siglata un’alleanza militare contro l’Austria[1]. Il trattato ufficiale, firmato cinque mesi dopo, stabiliva che la Francia sarebbe intervenuta al fianco del Regno Sabaudo solo nel caso in cui questo fosse stato aggredito dall’Austria. In caso di vittoria, sarebbero stati creati tre Regni riuniti in una confederazione presieduta dal Papa: un Regno dell’Alta Italia, dalle Alpi all’Adriatico comprendente il Lombardo-Veneto, i Ducati di Modena, di Parma e le Legazioni pontificie, sotto Casa Savoia; uno nell’Italia centrale comprendente la Toscana e le Legazioni di Umbria e Marche (il Lazio sarebbe rimasto al Papa); un terzo nell’Italia meridionale corrispondente al Regno delle Due Sicilie. L’imperatore francese avrebbe voluto insediare suo nipote Girolamo Napoleone sul trono del regno centrale e Luciano Murat su quello di Napoli.                                   La Francia, che con tale disegno strategico intendeva imporre la propria influenza al posto di quella austriaca sulla penisola, in cambio dell'aiu­to prestato si sarebbe annessa la Sa­voia e la città di Nizza appartenenti al Regno di Sardegna. Cavour, ottenuto da Napoleone III l'impegno a scendere in campo militarmente, si adoperò in tutti i modi per provocare l'Austria affinché facesse il primo passo verso la guerra[2].                                                                                              La battaglia di Solferino e San Martino fu diversa, sotto molti aspetti, da tutte quelle che l’avevano preceduta. Per la prima, ed unica, volta tre Capi di Stato: il Re Vittorio Emanuele II[3], l’Imperatore Francesco Giuseppe d’Austria[4] e l’Imperatore Napoleone III condussero contemporaneamente sul campo i rispettivi eserciti; entrambi gli schieramenti dispiegarono un elevato numero di uomini; lo scontro fu caratterizzato da una ferocia mai vista prima di allora; il numero di morti e feriti da ambo le parti fu altissimo; i Francesi impiegarono con grande efficacia i reparti coloniali africani ed un nuovo micidiale cannone a canna rigata[5].                          Migliaia di volontari accorsero da tutta Italia e l'Armata sarda, circa 30-40 mila uomini, di fatto, divenne l’embrione del futuro esercito del Regno d’Italia; i Francesi e gli Austriaci erano, rispettivamente, 120 mila e 130 mila uomini. Una massa complessiva di circa 290 mila soldati di varie nazionalità; solo le truppe dell’Imperatore Francesco Giuseppe erano composte da Austriaci, Tedeschi, Ungheresi, Croati, Cechi ed Italiani. Il numero dei Caduti, per una battaglia risorgimentale durata 12-14 ore, superò ogni più pessimistica previsione: «Perdite, fra feriti e morti, considerando che molti feriti morivano successivamente: 12 mila Piemontesi, 32 mila Francesi, 56 mila Austriaci. In proporzione, 1 Piemontese, 3 Francesi, 5 Austriaci. 27 mila morti sul campo dissepolti negli anni successivi e posti negli Ossari. Con i morti per ferite, in tutto 40 mila esseri umani in 14 ore. Mai successo prima»[6]. La battaglia di Solferino e San Martino è paragonabile a quella di una della prima guerra mondiale; nella 1a battaglia dell’Isonzo, per avere un termine di confronto, combattuta dal 23 giugno al 7 luglio 1915 tra 250.000 Italiani e 115.000 Austroungarici, i primi contarono 14.917 perdite tra morti feriti e dispersi, i secondi 10.400, il tutto in quindici giorni.                                                                                                                            Nello schieramento francese erano inquadrati, come accennato, soldati reclutati nelle colonie africane, soprattutto magrebini: «In testa alle colonne che muovevano avanti v’erano i “turcos”, i famosi tiragliatori algerini, un corpo di soldati arabi, inquadrati da ufficiali francesi (gli ufficiali algerini erano assai pochi), che aveva dato magnifica prova di sé prima nelle guerre d’Algeria e di Crimea, poi nella battaglia di Magenta […] era impossibile sostenere l’urto dei Francesi; e, in particolare, gli Austriaci erano soprattutto impressionati dai “turcos”, bruni, barbuti, selvaggi, animati da un cieco odio, che caricavano con urla stridule e terribili, cercando la lotta all’arma bianca»[7]. I tirailleurs algeriéns erano un corpo d’élite composto prevalentemente da algerini ma anche da tunisini, marocchini e senegalesi[8]. Arabi musulmani, organicamente inquadrati nell’esercito del cattolico Napoleone III, che diedero un contributo di sangue pesante, e poco                                                                                   conosciuto, alla causa risorgimentale italiana[9]. A Milano, sulla base del monumento a Napoleone III, osserva Philippe Daverio: «C’è un Larby-Ben-Mohamed e poi tantissimi Leroy, Leroux, Lépine e poi un altro Mohamed-Ben-Amran, Mohamed-Ben-Ahmed, Mohamed-Ben-Attaya… Quanti Mohamed morti per l’Italia!»[10].                                                                                                          A Solferino, i Francesi impiegarono e misero a punto il nuovissimo e rivoluzionario cannone da campagna modello 1858 La Hitte a canna rigata che sparava un proietto oblungo con gittata utile fino a 2.500 metri, nettamente superiore al tipo di cannone impiegato dagli Austriaci, ad anima liscia e proietto sferico. L’impiego dell’artiglieria, a partire da quella battaglia, avrebbe assunto nelle guerre successive un ruolo sempre più incisivo.                                                                   La sera del 24 giugno l’esercito austro-ungarico si ritirò, i Franco-Piemontesi avevano si vinto ma non erano riusciti ad annientare l’avversario né ebbero la forza di inseguirlo, le truppe di Francesco Giuseppe, seppur duramente provate, erano ancora in grado di combattere. Napoleone III telegrafò all'imperatrice sua moglie: «Grande battaglia; grande vittoria, tutto l'esercito austriaco ha preso parte al conflitto. La linea di battaglia aveva 5 leghe di estensione. Abbiamo preso tutte le posizioni, presi molti cannoni, bandiere e prigionieri. La battaglia è durata dalle 4 del mattino alle 8 di sera».                                                                                                                                 Nei giorni che seguirono non accadde nulla, gli Austriaci si misero in difensiva nelle fortezze del “Quadrilatero”[11] ed i Francesi rinunciarono a proseguire una guerra dall’esito incerto preoccupati anche di un possibile conflitto con la Prussia. «Il 6 luglio Fleury[12] si recava a Verona, portando a Francesco Giuseppe un messaggio che chiedeva una sospensione delle ostilità. Francesco Giuseppe accettò. Il giorno 11, in una strada polverosa e fiancheggiata da gelsi, i due imperatori cavalcarono l’uno verso l’altro, si strinsero la mano. In una casa vicina, poi, discussero a lungo, e cordialmente. Era l’armistizio. La guerra era così finita. La Lombardia veniva annessa al Piemonte, il Veneto restava invece all’Austria, che l’avrebbe tenuto fino al 1866 […] La delusione e l’amarezza degli Italiani furono grandi e brucianti»[13].  L’armistizio, firmato l’11 luglio 1859 a Villafranca vicino Verona, fu seguito il 10 novembre 1859 dalla pace di Zurigo che sancì definitivamente gli accordi armistiziali ponendo fine alla guerra. Nizza e la Savoia  passarono alla Francia.               L’ultimo sanguinoso evento della Seconda  Guerra d’Indipendenza, anche se lasciò tutte le parti in causa scontente, diede un impulso notevole alla causa risorgimentale italiana e fu all’origine della nascita della Croce Rossa. Il 26 giugno, infatti, due giorni dopo la fine di quello scontro immane, il medico svizzero Henry Dunant si recò nei luoghi della battaglia e rimase sconvolto da ciò che vide. Raccolse «le drammatiche testimonianze dei soldati che avevano combattuto in prima linea»[14] si documentò e scrisse il libro Un ricordo di Solferino in cui manifestò tutto il suo sgomento per la sofferenza dei moribondi abbandonati a loro stessi e maturò l’idea di fondare un ente umanitario per assistere i feriti di guerra senza distinzione di nazionalità: la Croce Rossa. «Gli spettacoli offerti agli sguardi del Dunant gli dimostrarono che la causa principale delle morti era dovuta al forzato ritardo dell’intervento chirurgico che diede luogo allo sviluppo di infezioni, di cancrene, di perdite di sangue»[15]. Dunant tratteggiò scene della battaglia sconvolgenti: «Colonne serrate gettansi, le une sulle altre, con l’impeto di un torrente devastatore che rovescia ogni cosa al suo passaggio […] Ogni rialto, ogni altura, ogni sperone di roccia è teatro di una pugna ostinata: sulle colline e nei fossati sono a mucchi i cadaveri. Qui è una lotta corpo a corpo, orribile, spaventevole: Austriaci ed Alleati si calpestano, si massacrano a vicenda sopra cadaveri sanguinosi, si pestano a colpi di calcio, si fracassano il cranio, si sventrano colla sciabola o colla bajonetta, non v’ha più quartiere, è un macello, un combattimento di belve feroci, furibonde ed ebbre di sangue; i feriti medesimi difendonsi fino all’ultima estremità, chi non ha più armi abbranca alla gola il suo avversario e lo lacera co’ suoi denti. Là è una lotta somigliante, ma che diventa più tremenda per l’avvicinarsi d’uno squadrone di cavalleria: esso passa a galoppo: i cavalli schiacciano sotto i loro piedi ferrati i morti e i morenti; ad un povero ferito è portata via la mascella, ad un altro frantumata la testa, un terzo che sarebbesi potuto salvare, ha affondato il petto. Ai nitriti dei cavalli si frammischiano vociferazioni, grida di rabbia ed urli di dolore e di disperazione. Più lungi è l’artiglieria lanciata a tutta carriera e che segue la cavalleria; essa apresi una strada attraverso i cadaveri e i feriti giacenti indistintamente sul terreno: allora schizzano le cervella, son rotte e fratturate le membra, la terra s’imbeve di sangue, e la pianura è cosparsa di umane reliquie […] All’attacco del colle Fontana i cacciatori algerini sono decimati, i lor colonnelli Laure e Herment sono uccisi, i loro ufficiali soccombono in gran numero, ciò che raddoppia il loro furore: ei si eccitano a vendicarne la morte, e si riversano, colla rabbia dell’africano e il fanatismo del Mussulmano, sopra i loro nemici cui essi massacrano con frenesia e come tigri sitibonde di sangue. I Croati gettansi a terra, nascondonsi nei fossati lasciando avvicinare i loro avversari, poi subitamente poi subitamente rialzandosi li uccidono a bruciapelo»[16]. Se il Dunant concepì una struttura umanitaria neutrale capace di soccorrere i soldati feriti, senza distinzione di nazionalità, parte del merito va riconosciuto ai civili che gli diedero tale ispirazione. Uomini e donne dei luoghi della battaglia si adoperarono concretamente ed amorevolmente per curare e confortare le migliaia e migliaia di feriti agonizzanti. A Castiglione delle Stiviere, a Montichiari, a Brescia e in tutte le località investite dalla battaglia o da essa solo sfiorate, il Dunant rimase impressionato dall’attivismo e dalla generosità con cui la popolazione improvvisò «mezzi di trasporto, medicamenti, ospitalità e conforto ai superstiti dei tre eserciti, partecipando cosi alla vittoria e precorrendo con la sola forza del loro cuore, la ragione sociale e umana della Croce Rossa Internazionale»[17].                                                                                            Due anni dopo la battaglia di Solferino e San Martino, nel 1861, fu proclamato il Regno d’Italia e nel 1863, a Ginevra, nasceva la Croce Rossa Internazionale.

 

 



[1] Il Regno di Sardegna nel 1848 iniziò la Prima Guerra d’Indipendenza, a seguito della insurrezione di Milano contro gli Austriaci, che si concluse nel 1849 con la definitiva sconfitta dei Piemontesi a Novara e l’abdicazione di Carlo Alberto.

 

[2] I Francesi e gli Austriaci solo dieci anni prima, nel 1849, si erano ritrovati alleati nel comune scopo (Napoleone III all’epoca non era ancora Imperatore) di reprimere la Repubblica Romana e ripristinare il potere temporale di Pio IX.

 

[3] Vittorio Emanuele II salì al trono nel 1849 dopo l’abdicazione di suo padre Carlo Alberto. Fu l’ultimo Re di Sardegna e, a partire dal 17 marzo 1861, il primo Re d’Italia.

[4] L’Imperatore Francesco Giuseppe salì la trono, appena diciottenne, nel 1848.

[5] In particolare, a Solferino si scontrarono Francesi ed Austriaci mentre a San Martino Piemontesi ed Austriaci.

[6] Daverio Philippe, Alla ricerca della Memoria, Bollettino della Società di Solferino e S. Martino, n. 9 - MMXVI, 4 novembre 2016, p. 6.

[7] Martelli Stelio, Le battaglie di Solferino e San Martino, Varesina Grafica Editrice, 1971, pp. 81-82.

[8] Truppe nordafricane in Italia le ritroveremo inquadrate nel Corpo di Spedizione Francese al  comando del generale Alphonse Juin durante la seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre 1943, nel corso della Campagna d’Italia.

[9]L’Algeria moderna avrebbe conquistato l’indipendenza un secolo dopo, nel 1962, dopo una guerra di liberazione iniziata nel 1954. 

[10] Daverio Philippe, Alla ricerca della Memoria, Bollettino della Società di Solferino e S. Martino, n. 9 - MMXVI, 4 novembre 2016, p. 4.

[11] Sistema difensivo che abbracciava un’area i cui vertici erano rappresentati dalle fortezze di Verona, Peschiera del Garda, Mantova e Legnago.

[12] Aiutante di Campo di Napoleone III.

[13] Martelli Stelio, Le Battaglie di Solferino e San Martino, Varesina Grafica Editrice, 1971, p. 148.

[14] Società Solferino e San Martino, Guida ai Monumenti di San Martino e Solferino, p. 24.

 

[15] Re Luigi, Nascita della Croce Rossa, in Guerrini Paolo (a cura di), Memorie Storiche della Diocesi di Brescia, Volume XXVI, Edizioni del Moretto, 1959, p. 19.

[16]Dunant Henry, Un ricordo di Solferino, www.liberliber.it, versione italiana di Luigi Zanetti - Milano: Guglielmini, 1863. pp. 16-17-27-28.

 

[17] Historicus, Nascita della Croce Rossa, in Guerrini Paolo (a cura di), Memorie Storiche della Diocesi di Brescia, Volume XXVI, Edizioni del Moretto, 1959, p. 26.