Secondo lo storico tedesco Heinrich von Treitschke, la
guerra è lo strumento per fare di un popolo una nazione[1]
e le forze armate, rappresentano la cartina tornasole di tale evoluzione. Le
vittorie o le sconfitte militari denotano, più di ogni altro evento, la potenza
di uno Stato o la sua debolezza e si riflettono sul morale del suo popolo e su
quel complesso di vincoli e di sentimenti che lo legano ad esso e che vengono
chiamati, in un’unica espressione, coscienza nazionale. Laddove lo Stato non
esiste o è ancora in una forma embrionale, le vicende delle forze armate
contribuiscono a generare questa coscienza. Non vi è Paese al mondo in cui
l’identità nazionale non si sia sviluppata a seguito di avvenimenti bellici. La
mente va agli ex dominions britannici: gli australiani, i neozelandesi, i
canadesi maturarono la consapevolezza di appartenere alle rispettive nazioni,
solo dopo aver combattuto nelle trincee della Prima guerra mondiale.
In Italia la formazione di una forza armata è figlia della
violenta scossa data dalla Rivoluzione Francese: è negli anni tra il 1796 e il
1802 che nella nostra Penisola si combattono le forze contrapposte del nuovo e
del vecchio mondo. È evidente che in Italia il processo di
formazione del moderno stato nazionale non è stato un fenomeno indipendente, ma
ha finito per inquadrarsi entro le contese che sconvolgevano l’Europa.
L’invasione francese dell’Italia avvenne mentre le terribili guerre della Prima
e della Seconda Coalizione infuriavano dalle acque dell’Atlantico a quelle del
Mediterraneo, dall’Europa Occidentale al Danubio. L’Italia, per la sua
importanza strategica, non poteva non essere coinvolta nell’infernale
ingranaggio della guerra. Se le forze giacobine furono sollecitate, armate e
organizzate dai francesi, gli aiuti militari dei Paesi ostili alla Francia non
mancarono di sostenere la lotta armata della parte antagonista. È in Italia che
l’aquila prende il volo e per dirla alla Manzoni è qui che Napoleone “si nomò due secoli”, ponendosi ad arbitro tra la
Rivoluzione e la Restaurazione. Se il vecchio mondo non si rassegnava a morire,
ed aveva ancora forze sufficienti per combattere e sopravvivere, il nuovo mondo
non poteva più essere distrutto, ma non aveva ancora la forza per ottenere il
trionfo. Una nuova realtà, in Europa, era in divenire e provava a creare una
società corrispondente alle esigenze emergenti, trovandola tuttavia impreparata
e ostile perché ingessata in un immobilismo secolare. La Rivoluzione francese
aveva inflitto al vecchio mondo una scossa capace di sconvolgerne le
fondamenta, gettando le basi del nuovo. Tuttavia, aveva generato un mondo
caotico e convulso, un vulcano in attività, nel quale il nuovo non aveva preso
la forma della legge e del diritto, tale da consentirgli di esistere ed imporsi
sulla civiltà europea. Sconvolto ma non sconfitto, il vecchio mondo aspettava
in agguato il momento per riaffermarsi, riguadagnare il terreno perduto e
cancellare gli ultimi dieci anni di storia. Così si possono riassumere le
vicende europee sul finire del XVIII secolo, in cui l’Italia, per un lungo
periodo, fu, in gergo sportivo, il terreno di gioco.
Fu nell’Italia del Nord
che i più importanti gruppi giacobini si schierarono a fianco della Francia
rivoluzionaria. Con questo non si vuole ignorare o trascurare l’enorme rilievo
ideale dei giacobini meridionali, però è opportuno considerare oltre che la
vicinanza geografica del nord Italia alla Francia anche il fatto che l’assenza
di una classe borghese rendeva il giacobinismo meridionale limitato ed
elitario. Fu, infatti, solo l’élite intellettuale aristocratica a costituire la
forza motrice del giacobinismo del Sud Italia. Nel Nord invece, il giacobinismo
ebbe un seguito più cospicuo e l’adesione militare ebbe, in vista della futura
nascita del moderno Stato nazionale italiano, un’importanza immensa. Creò
l’embrione di un esercito nazionale, dando a questo esercito un ideale, una
speranza nel futuro e sopra ogni altra cosa una bandiera nazionale. Il nome di
Repubblica Italiana, poi Regno d’Italia, offrì all’attenzione dell’Europa la
prima compagine statale così chiamata. Le imprese militari delle nuove forze
armate italiane furono più che degne e spesso gloriose. Si formò in esse un
gruppo moderno di ufficiali italiani che avrebbero fornito non pochi quadri
alla prima fase del futuro processo nazionale. La costruzione dell’esercito in
Italia costituisce un momento centrale nella formazione dell’Italia
contemporanea. Nel quadro del processo di modernizzazione amministrativa,
economica, civile e culturale avviato nel nostro Paese da Napoleone per il
Regno Italico e da Murat per il Regno di Napoli, la formazione di un esercito nazionale
è un avvenimento che travalica la storia militare per investire le vicende
della società e del costume. Passeranno ancora tanti anni prima che ciò si
realizzi ma è a seguito delle due campagne di Napoleone in Italia che se ne
pongono le premesse.
Nonostante Napoleone si
vantò sempre di aver risvegliato lo spirito guerriero degli italiani
addormentato da secoli, non era sua intenzione avviare un’emancipazione della
penisola ed un suo affrancamento dalla tutela francese, ma fu solo il desiderio
di incrementare con un numero sempre maggiore di uomini le proprie schiere che
lo spinse ad introdurre la coscrizione in Italia. D’altra parte, il Direttorio
non l’aveva mandato, né Bonaparte era venuto in Italia per democratizzarla, ma
unicamente per appropriarsi delle sue risorse belliche e per imporre la propria
pace all’Austria. Inventare, favorire oppure stroncare la democratizzazione
italiana fu, dunque, sia per il Direttorio che per Bonaparte, strettamente
funzionale agli adattamenti del piano strategico. Diverso il discorso per
Gioacchino Murat, il quale, benché all’inizio avesse anche lui avversato
l’autonomia degli italiani, una volta diventato re di Napoli, e svincolatosi
dalla soffocante potestà del cognato, avviò un processo di vera indipendenza
che coincise con l’avvio del processo risorgimentale, tanto che noi oggi
consideriamo Tolentino, l’ultima battaglia napoleonica e al tempo stesso la
prima del Risorgimento.
L’impatto della
coscrizione, esperienza del tutto nuova nel nostro Paese, fu traumatico, perché
i ceti popolari si opposero in tutti i modi possibili allo sradicamento dei
giovani coscritti dalle loro case. Le manifestazioni più significative di
questa opposizione furono la renitenza e la diserzione, fenomeni che assunsero
un carattere di massa, alimentando un brigantaggio fattosi presto endemico.
Tuttavia, nonostante
queste difficoltà, le armate italiane divennero una realtà. Nei loro ranghi tra
il 1797 e il 1815 passarono più di 250.000 uomini, la metà dei quali caddero in
battaglia o morirono per cause connesse alla guerra. Dunque, nella guerra, fu
forgiato l’embrione della futura nazione italiana. Per valutare l’importanza
del ruolo che la tradizione militare italiana del periodo napoleonico ebbe nel
movimento risorgimentale, basterebbe ricordare la famosa offerta delle aquile
della disciolta Guardia Reale Italiana che, durante la guerra d’indipendenza
del 1848, fu fatta al re Carlo Alberto (in gioventù sottotenente dei dragoni
nell’esercito napoleonico) dall’anziano generale Teodoro Lechi, che quelle
aquile custodiva dal 1814, salvandole dalla consegna al nemico. Gli anni
vissuti nell’esercito, prima cisalpino e poi italiano, ebbero nel processo di
realizzazione della coscienza nazionale e del sentimento patriottico
risorgimentale, un’importanza e un valore enormi. Le vicende trascorse nelle
armate napoleoniche operarono una trasformazione profonda in quelle decine di
migliaia di combattenti sotto la bandiera tricolore. Per uomini sbalzati in
terre lontane e straniere quel vessillo diventò un punto di raccordo ed essi
iniziarono ad abbattere le barriere linguistiche, a superare i limiti posti dal
municipalismo e a riconoscersi in una superiore unità nazionale.
Ma c’è ancora un
episodio in cui si rileva l’importanza delle vicende militare nella nascita
della nostra nazione ed è proprio nell’atto conclusivo della fantastica
avventura degli italiani nelle armate napoleoniche. All’indomani della
sconfitta a Tolentino, Murat abbondonò il regno e salpò per la Francia. Il 22
maggio le truppe borboniche rientravano a Napoli e Ferdinando IV tornò a sedere
sul trono, mentre le città del Meridione aprivano le porte agli austriaci e ai
borbonici. Non così Gaeta: il suo comandante, maresciallo Alessandro Begani si
rifiutò di arrendersi se non dietro espresso ordine di re Gioacchino e con soli
1.300 uomini si preparò all’assedio di inglesi, austriaci, toscani, pontifici,
insorti borbonici e regolari del re Ferdinando, resistendo fino all’8 agosto.
Napoleone era stato battuto a Waterloo due mesi prima e ormai era diretto
all’esilio di Sant’Elena, Luigi XVIII era tornato a Parigi, ovunque le bandiere
napoleoniche erano state ammainate, solo quella murattiana di Gaeta sventolava
ancora per merito di pochi valorosi italiani. Si potrebbe obiettare che erano
italiani anche molti degli assedianti, ma questi stavano restaurando un mondo
ormai finito. Quelli che a Gaeta resistevano senza speranza, invece,
camminavano con la Storia.
[1] F. Trocini , Tra Realpolitik e
deutsche Freiheit: il bonapartismo francese nelle riflessioni di August Ludwig
von Rochau e di Heinrich von Treitschke, in «Rivista Storica Italiana», a.
CXXI, I, Aprile 2009
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