Prefazione a
“L’ultima difesa pontificia di Ancona”
di Massimo Coltrinari
Si è assistito negli ultimi tempi a un fiorire di iniziative
culturali sul tema del Risorgimento, anche grazie alla ricorrenza del 150°
anniversario dell’Unità d’Italia che ha messo a disposizione sovvenzioni e
spazi da parte delle istituzioni. Iniziative spesso valide ma alcune volte lasciate
a improvvisatori
pronti ad approfittare di una contingenza finanziaria favorevole per il
mondo della cultura sicuramente inconsueta per il nostro paese.
Altre iniziative, invece, di improvvisato non hanno niente e
sono il frutto di una lontana e matura riflessione che si è trovata solo per
coincidenza a vedere la luce in questo momento di riscoperta del Risorgimento. È
questo il caso del libro di Massimo Coltrinari, che infatti non segue il format
delle proposte editoriali più recenti, dove l’interesse si concentrava prevalentemente
sugli aspetti politici, ideali e culturali del Risorgimento lasciando sullo
sfondo gli eventi bellici. E in disparte rimanevano anche le vicende locali, che
pagavano l’inevitabile visione d’insieme imposta dalle celebrazioni di uno
Stato unitario. Proprio agli eventi bellici e alle vicende locali è invece
dedicato questo libro, che coglie dunque alcune dimensioni poco valorizzate
dalla storiografia risorgimentale proponendosi come contributo di metodo per la
storia locale e di documentazione per la storia militare.
Nell’ambito di quest’ultima è oggi in corso una fondamentale
apertura volta a problematizzare il dato evenemenziale e cogliere attraverso la
guerra i meccanismi profondi che regolano gli equilibri del potere nelle
società moderne. Coltrinari adotta esattamente questa prospettiva. Nel libro
non c’è solo la guerra nei suoi aspetti brutali e cinici, ma anche le sue
implicazioni civili e morali, le connessioni con la vita politica, sociale ed
economica, a favore di una visione ampia della storia del territorio.
Quest’ottica intende sottolineare che la guerra non è fatta
solo di strategie e armamenti, ma anche - e anzi soprattutto - di uomini e di
luoghi. Il volto della guerra che ci restituisce questo libro è principalmente
questo. L’autore non si mette solo nei panni del generale e del diplomatico, ma
indossa senza imbarazzi anche quelli del soldato e del cittadino qualunque,
consegnandoci storie di vita poco note ma significative per comprendere le
dinamiche che sottendono quegli avvenimenti (ad esempio, le differenze di
cultura militare tra i soldati irlandesi e quelli svizzeri impiegati nelle
truppe pontificie).
Un approccio di questo tipo è tanto più importante oggi che,
grazie al successo del genere divulgativo, si tende a dimenticare che la guerra
è un fenomeno eminentemente pubblico. Non sono cioè solo i grandi condottieri e
gli strateghi i protagonisti dei conflitti bellici, ma anche le popolazioni
civili. Non è certo un’intuizione nuova: lo aveva ben espresso quasi un secolo
fa la scuola degli Annales di Marc
Bloc e Lucien Febvre. Ma è bene ribadirlo forte oggi di fronte alla tendenza a
personalizzare la storia (si vedano gli scaffali delle librerie, sempre più
ricchi di biografie). Ha fatto dunque bene Massimo Coltrinari a sottolineare
aspetti di microstoria come, ad esempio, l’importanza dell’attività dei
rivoluzionari di Ancona e di altre cittadine marchigiane nell’opera di disturbo
delle truppe pontificie sul territorio.
Contro le guerre disumanizzate di oggi, combattute pigiando
bottoni a migliaia di kilometri di distanza dal nemico e viste in televisione
da spettatori assuefatti che non distinguono più la realtà di una guerra dalla
finzione di un reality, l’approccio ‘dal basso’ adottato da Massimo Coltrinari
ci ricorda i caratteri aspri ma anche romantici delle guerre di una volta:
tecnologicamente artigianali quanto tatticamente sofisticate, fatte di rispetto
per un nemico che si aveva tutto il tempo di guardare in faccia. In questo
quadro, l’immagine stereotipata del generale senza cuore né rispetto per i
propri soldati non regge all’analisi dei fatti quando questi vengono raccontati
calandosi nella dura e concreta realtà della guerra.
La differenza che il libro marca rispetto al paradigma
bellico di oggi ci ricorda quanto è cambiata la società e quanto ha corso la
storia. Ci parla infatti di un’Italia molto diversa da quella attuale, in cui
il senso di responsabilità delle classi dirigenti era ben più sviluppato di
quanto lo sia adesso e l’appartenenza a una comunità, locale o nazionale che
sia, comportava non solo diritti ma anche - e in misura maggiore - doveri. Un
periodo in cui gli ideali condizionavano il comportamento delle persone più
degli interessi.
Nell’immaginario popolare il Risorgimento è costellato di
luoghi comuni e falsi miti. L’arguzia di questo libro ci aiuta a sconfessarne
alcuni illuminando gli avvenimenti con l’incontrovertibilità della
documentazione storica: battaglie avvenute in un luogo e invece passate alla
storia in un altro (Castelfidardo per Loreto), accoglienze tiepide per l’arrivo
dei piemontesi e invece spacciate per trionfali dalla retorica patriottarda (Ancona,
29 settembre 1860), concezioni manichee della storia (i sabaudi nella parte dei
buoni, i pontifici con i borbonici e tutti quelli a difesa del vecchio ordine nella
parte dei cattivi), e poi ancora una miriade di piccoli episodi dimenticati ma
in realtà decisivi sulla sorte degli avvenimenti.
Va però aggiunto che il libro non è solo un libro di uomini,
ma anche di luoghi, e infatti ci ricorda che i volti delle città e dei
territori cambiano per effetto delle guerre. Una condizione ben nota in molte
parti del mondo ma dimenticata nel vecchio Occidente, che sarà pure in crisi
economica e di valori ma – è bene ricordarlo - non conosce guerre convenzionali
sul proprio territorio da molto tempo. Il passaggio dallo Stato pre-unitario
allo Stato nazionale è stato fondamentale per la storia di Ancona, che da quel
momento è potuta crescere urbanisticamente ben oltre le strutture difensive che
nel 1860 dominavano lo spazio cittadino.
Gli eventi di quell’anno sono stati altrettanto importanti per le Marche, che con l’Unità
si sono scoperte una regione (nel lessico ufficiale post-unitario, un ‘compartimento’),
seppur nell’eterogeneità culturale che le contraddistingue. Un’eterogeneità che
risulta oggi indigesta a quei paladini del localismo che, mascherando gli
interessi di clientele politiche dietro al principio di autodeterminazione dei
popoli, auspicano profonde riconfigurazioni della maglia istituzionale, ad
esempio sotto forma di passaggi di comuni marchigiani ad altre regioni e
stravolgimenti consimili. La ricostruzione storica impone piuttosto di
ricordare che il criterio con cui venne disegnata la prima ripartizione politica
dello Stato italiano si affidava largamente al concetto di ‘regione naturale’, che
le Marche soddisfacevano ampiamente.
In chiusura, non posso non rilevare la ricchissima
documentazione che il libro porta in dotazione, poco nota o addirittura
inedita, sia scritta (diari, fonti militari riservate, dispacci governativi,
allocuzioni papali) che iconografica (carte geografiche e stampe d’epoca, disegni
di stemmi e di uniformi, fotografie di oggi tratte da un esperimento di
trekking urbano che testimonia gli apparenti cambiamenti di luoghi resistenti
all’intervento umano).
Il mio augurio è che questo libro possa contribuire non solo
a una migliore conoscenza della storia di Ancona e delle Marche, ma che possa
anche promuovere azioni dirette di valorizzazione di questi territori sotto
forma di iniziative culturali (musei, eventi) che sappiano coltivare la memoria
storica e proporla correttamente ai cittadini, locali e forestieri.
Per chiudere con una notazione confidenziale, devo confessare
che nel leggere il libro ho avvertito una sottile vena provocatoria dell’autore
nella scelta di affidare proprio a me questa prefazione: per me che vengo dalla
città di Pio IX, parlare dei rivoluzionari Anconetani che aspirano a liberarsi
dal giogo della Chiesa rappresenta una piccola ferita. Con la fine del potere
temporale dei Papi nelle Marche, infatti, Senigallia perde il suo status
privilegiato e torna a essere una cittadina di provincia come tante altre,
forse anche più indolente e apatica perché impigrita dai precedenti anni da
‘favorita’. Ma i conti con la storia prima o poi vanno fatti, e per questo ho accettato
di buon grado l’elegante dileggio a cui sono stato sottoposto, promettendo all’anconetano
Massimo Coltrinari di ripagarlo con la stessa moneta: questa mia prefazione lo
impegna infatti a scriverne lui una per una mia pubblicazione su Senigallia al
tempo in cui non si sentiva inferiore al capoluogo.
Edoardo Boria
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