L'Ultima difesa pontificia di Ancona . Gli avvenimenti 7 -29 settembre 1860

Investimento e Presa di Ancona

Investimento e Presa di Ancona
20 settembre - 3 ottbre 1860

L'Ultima difesa pontificia di Ancona 1860

L'Ultima difesa pontificia di Ancona 1860
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Onore ai Caduti

Onore ai Caduti
Sebastopoli. Vallata di Baraclava. Dopo la cerimonia a ricordo dei soldati sardi caduti nella Guerra di Crimea 1854-1855. Vedi spot in data 22 gennaio 2013

Il combattimento di Loreto detto di Castelfidardo 18 settembre 1860

Il combattimento di Loreto detto di Castelfidardo 18 settembre 1860
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La sintesi del 1860

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Il combattimento di Loreto, detto di Castelfidardo 18 settembre 1860

Il Volume di Massimo Coltrinari, Il Combattimento di Loreto detto di Castelfidardo, 18 settembre 1860, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2009, pagine 332, euro 21, ISBN 978-88-6134-379-5, è disponibile in
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venerdì 10 gennaio 2020

La Guerra del 1866. III di Indipendenza 4 La Battaglia di Custoza 1


1.       SITUAZIONE GENERALE
a.       Situazione generale militare
(1)      I quadri – le forze – i mezzi
(a)    I capi: organizzazione del vertice operativo
In analogia all’Esercito Prussiano, l’Italia adottò la soluzione per la quale il Re Vittorio Emanuele II avesse il comando supremo e che lo esercitasse attraverso il suo Capo di Stato Maggiore, individuato nel Generale Alfonso La Marmora, che fino a due giorni prima dell’inizio delle ostilità ricopriva l’incarico di Presidente del Consigli dei Ministri. Il Ministro della Guerra era il Generale Ignazio de Genova di Pettinengo.
Il contingente destinato alla campagna contro l’Austria fu organizzato in:
·       Armata del Mincio, sotto il comando del Re in persona e quindi del Gen. La Marmora,
·       Armata del Po comandata dal Generale Cialdini.
Il Comandante in Capo delle Forze Armate era l’Imperatore Francesco Giuseppe. L’Esercito si componeva di un’Armata dell’Iser, di un’Armata del Nord e un’Armata del Sud.
L’Armata del Sud, impegnata nella campagna contro l’Italia, aveva da poco cambiato il comandante supremo: al Maresciallo Benedek, assegnato per operare sul fronte principale in Boemia, era subentrato l’Arciduca d’Austria, feldmaresciallo Alberto Federico Rodolfo, figlio dell’Arciduca Carlo.
(b)    Gli SM: la loro organizzazione ordinativa
Erano passati “soli cinque anni dalla costituzione dell’Italia in Regno, e, oltre allo straordinario ingrandimento dell’Esercito piemontese, si era dovuto procedere alla fusione nel regio Esercito di una parte dei quadri dell’Esercito delle Due Sicilie e dell’Esercito garibaldino. Con finanze assai ristrette, si erano dovuti fabbricare materiali in grandissima copia, creare dotazioni, stabilire magazzini e depositi, creare stati maggiori, quadri, ecc. […][i].L’Italia non aveva ancora una tradizionale efficienza nel servizio di stato maggiore. I generali La Marmora, Della Rocca e Cialdini erano ottimi ufficiali con una splendida carriera militare alle spalle, ma con nessuna esperienza di comando di un enorme contingente e per di più costituito da soldati regolari. Il Gen. La Marmora che assunse poi l’incarico di Capo di Stato Maggiore era quello più impegnato dal punto di vista politico e che quindi aveva una percezione della realtà dello strumento militare veramente limitata. Se a questo aggiungiamo una certa “gelosia” tra i grandi generali italiani, ma soprattutto il desiderio del Re Vittorio Emanuele II di dirigere le operazioni, insieme al Gen. Petitti, è facile intuire che il Comando Supremo delle operazioni, così come l’organizzazione degli stati maggiori, non poteva che presentare dei problemi che si sarebbero ripercossi sulle operazioni.
Lo stato maggiore, come inteso dai prussiani e anche dagli austro-ungarici, non era mai esistito nell’Esercito Sardo e continuò a non esistere anche nell’Esercito Italiano. Gli Ufficiali di stato maggiore, al termine dei corsi frequentati, avevano dismesso lo studio che diventava privilegio di pochissimi volenterosi. Gli stessi inadeguati insegnamenti strategici, tattici, procedurali e storici erano stati dimenticati per cui nel 1866, pochi erano gli Ufficiali si stato maggiore preparati.
Benché non abbondante di vittorie, la tradizione militare austro-ungarica era molto solida. Anzi, si può dire che la vitalità dell’Impero di Francesco Giuseppe risiedeva proprio nell’esercito. Pur tuttavia, la principale cagione dei mali era la scarsità di grandi condottieri. Non mancavano i generali dotti e preparati, ma i geni militari rimanevano soffocati dalla ferrea disciplina, dalle consuetudini e dai pregiudizi da cui era emerso nel recente passato solo l’Arciduca Carlo, padre di Alberto.
(c)     Le forze terrestri: unità in genere, di pronto impiego, di riserva
Senza contare i volontari di Garibaldi, circa 38000 uomini, le truppe di presidio e di completamento, l’Esercito Italiano aveva una forza effettiva di 22000 uomini, 37000 cavalli e 456 cannoni. Fu disposto il richiamo delle classi 1834 – 1840 (prima categoria) e 1840 – 1841 (seconda categoria). Le operazioni di mobilitazione furono complicatissime a causa della configurazione della penisola italiana e per lo scarso sviluppo delle ferrovie. L’organizzazione di quel contingente fu opera del Gen. Petitti.
Per resistere al contingente italiano, gli austriaci avevano organizzato un esercito che poteva contare di fortissimi appoggi e fortificazioni inespugnabili. Ma erano comunque necessarie numerose guarnigioni ed era inevitabile un certo disseminamento di forze. Dei dieci corpi costituenti l’Esercito Imperiale, ben sette furono destinati all’Armata del Nord, insieme a cinque Divisioni di Cavalleria, e una riserva generale di artiglieria per un totale di circa 185000 uomini. Soltanto tre Corpi di Armata vennero destinati all’Armata del Sud, con una Brigata di Cavalleria di riserva, per un totale di circa 145000 uomini, 15000 cavalli e 192 pezzi di artiglieria. Escludendo le forze di presidio e di guarnigione e delle forze destinate nel Tirolo, dove fu inviato un contingente autonomo sotto il Comando del Gen. Von Kuhn, per le operazioni nel Veneto erano disponibili 94500 uomini, 12500 cavalli e 168 pezzi.
(d)    Le dottrine operative: la loro definizione in base agli intendimenti politici, di ordine strategico, tattico e potenziale
In Italia, come del resto anche nell’Impero, gli insegnamenti delle guerre napoleoniche erano stati lasciati volutamente nel dimenticatoio, a differenza di alcuni generali prussiani della scuola di Clausewitz. Le campagne napoleoniche avevano insegnato, ad esempio, che un corpo d’armata non poteva avere più di quattro divisioni, se non compromettendo la mobilità e la manovrabilità. Ma i principi dell’arte della guerra non erano conosciuti, se non superficialmente. Per dirlo in altre parole, gli studi militari in Italia non erano presi in seria considerazione. Certamente la dottrina tattica presentava segni di invecchiamento e necessitava di rinnovamento, ma quando applicata correttamente era ancora motivo di successo.
Anche per quanto riguarda l’Impero, all’epoca dei fatti pochi generali “sapevano” fare la guerra e uno di questi era il Comandante dell’Armata del Sud,  l’Arciduca Alberto, figlio primogenito del grande Arciduca Carlo d’Asburgo che aveva battuto Napoleone nel 1809. Egli si era formato studiando le campagne, specialmente quelle del padre. Da questi insegnamenti aveva appreso soprattutto la fermezza d’animo, il carattere serioso, ma soprattutto l’idea secondo la quale non bisognava lanciarsi alla carica fino ad un punto di non ritorno. Al contrario, bisognava avere l’accortezza di tenere sempre un atteggiamento guardingo e difensivo. E questo concetto volle applicarlo integralmente nella campagna contro gli italiani, definiti da lui stesso rapaci. Quindi come l’Armata del Nord, comandata dal Gen. Benedek, in Italia l’Arciduca Alberto si proponeva di fare una guerra difensiva, favorita dal terreno e dalle fortificazioni presenti nel Veneto.  
( il prossimo post sarà pubblicato in data 20 gennaio 2020)

[i] Pollio A., Custoza (1866), Libreria dello Stato, Roma, 1935, p. 3

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