giovedì 18 aprile 2019
La spedizione dei Mille
Relazioni*
Prima di inoltrarci nell'analisi della
spedizione è forse opportuno chiarire alcuni aspetti della stessa.
I Mille, in realtà, erano 1.089.
Erano uomini di tutte le età e di ogni ceto sociale, giovani ed anziani. C'era
anche una donna, la moglie di Crispi, un avvocato siciliano destinato a
diventare importante. Questi, nel corso della campagna siciliana, avrebbe
rivestito il ruolo di consigliere politico di Garibaldi. In seguito, dopo
l'unificazione dell'Italia, sarebbe diventato Presidente del Consiglio del
Regno d'Italia.
Questo piccolo corpo di
spedizione non era una forza organizzata ma un gruppo raccogliticcio di varia
provenienza sociale, male armato e peggio equipaggiato, animato da grandi
ideali di libertà. Le famose camicie rosse indossate da questi uomini erano
state confezionate con la stoffa donata da un simpatizzante. La loro
composizione sociale è significativa: per metà elementi della borghesia
(professionisti, commercianti, artisti, capitani di mare, ecc.) per metà
artigiani ed operai.
La spedizione dei Mille
costituisce la maggiore delle campagne di Garibaldi. Per la prima volta,
infatti, un'impresa garibaldina acquista un valore dichiaratamente nazionale,
diventa la forza che consente all'Italia di fare un ulteriore, vigoroso passo
in avanti sulla via dell'unità.
Siamo nel 1860, la Toscana e
l'Emilia sono state annesse al Regno di Sardegna. Il 2 aprile, a Torino si
inaugura il nuovo parlamento, che da quel giorno risulta formato dai
rappresentanti di sei regioni: Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna,
Toscana e Sardegna. Nella primavera di quell'anno, in Sicilia entrano in
agitazione i vari comitati rivoluzionari; scoppiano rivolte che vengono
prontamente represse dalla gendarmeria borbonica. La prima e più nota è quella
cosiddetta della “Gancia”, dal nome di un convento di Palermo dove, dopo le
prime manifestazioni di piazza, si erano rifugiati alcuni popolani guidati da
Francesco Riso. Assediato dai borbonici, il gruppo di rivoltosi attese invano
gli aiuti dalle campagne. Alla fine, fu brutalmente sopraffatto. Intanto a
Genova, Francesco Crispi, capo riconosciuto della numerosa colonia di esuli
siciliani, si rivolge a Garibaldi per convincerlo ad organizzare una spedizione
militare in Sicilia. Inizialmente, Garibaldi è indeciso. Quando, però, viene a
sapere che nelle campagne siciliane numerose bande di picciotti in armi lo
attendono rompe gli indugi e decide di intervenire. Siamo al 30 aprile 1860.
Un anno prima, nel 1859, Giuseppe Garibaldi,
nominato per l'occasione Maggior Generale dell'esercito sardo, aveva
guidato i Cacciatori delle Alpi contro gli austriaci nel corso della
seconda Guerra di Indipendenza conclusasi l'11 luglio del 1859 con l'armistizio
di Villafranca, che obbligava l'Austria a cedere la Lombardia, meno Mantova e
Peschiera, alla Francia che a sua volta la cedette al Piemonte. Con la fine della
seconda Guerra di Indipendenza, gli austriaci non erano stati annientati ed il
Veneto, contrariamente alle aspettative, era rimasto nelle loro mani.
Nel 1860, Garibaldi ha due
obiettivi: il primo, immediato, è quello di portare la rivoluzione, in nome di
Vittorio Emanuele II, nell’Italia meridionale partendo dalla Sicilia, risalire
la penisola ed entrare nello Stato Pontificio; il secondo, decisivo, è quello
di ritornare a Roma per riprendersi la rivincita dopo la sfortunata vicenda
della Repubblica Romana del 1849, caduta sotto il piombo di un'altra
Repubblica, quella francese di Napoleone III, in difesa della quale aveva speso
tutte le sue energie.
Il Re è favorevole all'impresa,
mentre Cavour è contrario per due motivi: da una parte teme complicazioni
diplomatiche con la Francia e l'Inghilterra le quali potrebbero opporsi a nuove
conquiste dei piemontesi, dall'altra il timore che la Sicilia, una volta
liberata da Garibaldi, diventasse una repubblica e fosse perduta per il Regno
di Sardegna. Alla fine, Cavour accetta a patto che l'impresa abbia, per così
dire, un carattere “spontaneo”.
Nella notte tra il 5 e il
6 maggio 1860, sotto la guida del genovese Nino Bixio, braccio destro di
Garibaldi, 1.089 garibaldini si imbarcano presso lo scoglio di Quarto, vicino a
Genova, su due navi della Società Rubattino, il Piemonte e il Lombardo.
Il 7 maggio, i volontari fanno scalo a Talamone sulla costa toscana presso
Grosseto. Alcuni di loro sbarcano e dirigono verso i confini dello Stato
pontificio per far credere che l'impresa è diretta verso Roma. Garibaldi
riprende la navigazione solo dopo essersi fatto consegnare dal comandante del
vicino forte di Orbetello un certo numero di cannoni, armi e munizioni. L'11
maggio, le due navi dopo essere sfuggite alla flotta borbonica che incrocia nel
Tirreno arrivano a Marsala dove iniziano le operazioni di sbarco sotto la
protezione indiretta di alcuni piroscafi inglesi i quali, ormeggiati in porto
vicino al Piemonte ed al Lombardo, impediscono alle navi
borboniche di aprire il fuoco. È da Marsala che Garibaldi lancia il suo primo
proclama al popolo siciliano, un appello all'unità ed alla lotta. Ed i
picciotti, gli insorti siciliani, cominciano ad affluire già a Salemi, nei
pressi di Trapani, dove, dopo tre giorni di marcia, il piccolo e risoluto corpo
di spedizione si è portato. Qui, il 14 maggio, Garibaldi assume “nel nome di
Vittorio Emanuele Re d'Italia la dittatura in Sicilia”.
A Salemi si offrono a Garibaldi
due possibilità: inoltrarsi all'interno dell'isola, rafforzarsi con le bande ed
affrontare in un secondo tempo i borbonici, oppure marciare verso Calatafimi,
dove lo attende il nemico, ed aprirsi audacemente la via di Palermo. Garibaldi
sceglie quest'ultima perché ha bisogno di un prestigioso successo iniziale,
indispensabile per le sorti dell'impresa. Sulle alture davanti a Calatafimi si
trovano schierate le forze di fanteria, le artiglierie e la cavalleria
borboniche al comando del vecchio generale Landi. Al mattino del 15 maggio,
Garibaldi fa schierare i suoi sulle alture di fronte a quelle occupate dalle
forze borboniche. I due schieramenti sono divisi da una valle. Per ciascuna
delle due parti sarebbe vantaggioso aspettare il nemico nelle proprie
posizioni, tanto più per i garibaldini che sono inferiori di numero e di
armamento. E questa sembra infatti l'intenzione di Garibaldi. Senonché alcune
compagnie borboniche, nella presunzione di poter agevolmente aver ragione di
quell'accozzaglia di filibustieri e contravvenendo agli ordini del
Generale Landi, attaccano il settore tenuto dai carabinieri genovesi i quali
fanno avvicinare gli avversari e, dopo una intensa e precisa scarica di
fucileria, attaccano alla baionetta, specialità questa tipicamente garibaldina,
i borbonici. Questi ultimi, che non si aspettavano un tale furioso
contrattacco, ripiegano disordinatamente verso le posizioni di partenza. A
questo punto la situazione sfugge di mano allo stesso Garibaldi che,
soddisfatto di aver respinto le truppe del Landi, non vuole arrischiarsi ad
attaccare le stesse frontalmente, attestate peraltro su un'altura dominante
difficile da espugnare. Perciò egli fa suonare ripetutamente il segnale di alt
per fermare i suoi, ma inutilmente.
I carabinieri genovesi, con il loro slancio ed entusiasmo, si trascinano
dietro i garibaldini che stanno subito dietro, quelli della seconda linea.
Il combattimento si fa aspro, “caldissimo”
come scrisse poi il Landi. Garibaldi comprende che ormai sono in gioco le
sorti della giornata e per evitare scollamenti tra le proprie linee, abbandona
ogni indugio ed ordina l'assalto. Si getta nel cuore della battaglia in mezzo
ai suoi uomini. Bixio, a cui certo non difettano coraggio ed audacia,
rappresenta con qualche imbarazzo al suo Capo che forse è meglio disimpegnarsi
dal combattimento e ritirarsi. In risposta, Garibaldi impugna la
sciabola e sprona i suoi garibaldini a compiere l'ultimo balzo verso le
posizioni nemiche. Le truppe borboniche ormai a corto di munizioni, senza
rinforzi, sconvolte dal furioso attacco e disorientate abbandonano le
posizioni. Il 16 maggio Garibaldi entra a Calatafimi, la strada per Palermo è
aperta. Il giorno successivo riprende la marcia, il 19 maggio supera Partinico
portandosi a 15
chilometri dalla capitale siciliana. La vittoria di
Calatafimi rappresenta una svolta importante che va ben oltre il fatto d'armi.
L'insurrezione divampa in tutta l'isola. I borbonici, pur superiori in uomini,
armi e mezzi, si mettono sulla difensiva. Nei comandi il sentimento prevalente
è lo scoramento. I “filibustieri”, come li definisce il “Giornale del
Regno delle Due Sicilie”, ora fanno paura. All'alba del 27 maggio le
prime colonne di garibaldini, appoggiate dalla popolazione, entrano a Palermo
presidiata da 21.000 soldati ben armati. Subito si accendono aspri
combattimenti strada per strada. I borbonici bombardano la città dal forte di
Castellammare e dalle navi, provocando gravi danni e molte vittime tra i
civili. Il 30 maggio i borbonici, allo stremo delle forze, così come gli
attaccanti, chiedono una tregua di ventiquattrore, che Garibaldi accetta subito
respingendone però alcune clausole ritenute inaccettabili. Il giorno seguente,
la tregua viene prolungata di tre giorni.
Intanto, il comando militare
borbonico di Palermo, dopo essersi consultato febbrilmente con Napoli ed aver
constatato che gli attaccanti hanno rafforzato le proprie posizioni, decide di
lasciare la città ed ordina alle proprie truppe di ritirarsi.
Il 21 giugno Garibaldi si insedia
saldamente nella capitale dell'isola. Con la perdita di Palermo, si avvicina
per Francesco II, succeduto al padre Ferdinando II l'anno prima, anche la
perdita della Sicilia.
Nel frattempo, a Napoli il
giovane ed ultimo sovrano delle Due Sicilie, nell'intento di salvare almeno la
parte continentale del regno, cerca l'alleanza delle Potenze europee, concede
la Costituzione per conquistarsi le simpatie dei liberali e vara un nuovo
governo. Ma è ormai troppo tardi. Politicamente, la situazione è compromessa. I
liberali chiamati al governo e presenti nel Parlamento simpatizzano apertamente
per i garibaldini che, rinforzati da migliaia di volontari, il 20 luglio
sconfiggono nuovamente i borbonici a Milazzo.
Con questa battaglia, una delle
più sanguinose (750 dei circa 4.000 garibaldini cadono morti o feriti) si
conclude la prima fase dell'impresa dei Mille. Garibaldi, padrone ormai della
Sicilia, inizia a progettare l'attraversamento dello stretto di Messina. Il 18
agosto, eludendo le navi da guerra napoletane, sbarca a Melito a sud di Reggio
Calabria che conquistata il 21 dello stesso mese.
Il 7 settembre 1860 Garibaldi
entra a Napoli accolto trionfalmente dalla popolazione, mentre Francesco II si
rifugia nella fortezza di Gaeta.
Pochi giorni dopo, l'11
settembre, con il Regno delle Due Sicilie ormai crollato sotto la spinta, come
abbiamo visto, della Spedizione dei Mille ed un esercito pontificio
sbilanciato verso sud preoccupato a difendersi da possibili attacchi delle
truppe di Garibaldi, i Sardi invadono le Marche e l'Umbria, territori da secoli
appartenenti allo Stato della Chiesa. Il 18 di quello stesso mese, con la
battaglia di Castelfidardo, viene di fatto sancita l'annessione delle due
regioni al Regno di Sardegna.
Nell'anno successivo, nel 1861,
si sarebbe realizzata l'Unità d'Italia.
Matino Lecce, 2012
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