venerdì 4 gennaio 2019
1860. L'innesco degli avvenimenti
prossimo obbiettivo Roma
L'entrata a Napoli di Garibaldi il 7 Settembre 1860
fece precipitare la situazione. Partito da Quarto nel maggio precedente, alla
testa di 1089 volontari, per portare la Rivoluzione nel Regno delle Due
Sicilie, con l'appoggio tacito ed indiretto del Governo di Torino, Garibaldi,
sbarcato a Marsala, aveva conquistato la Sicilia nell'estate. Passato sul
continente, non trovò validi ostacoli alla sua azione e ai primi di settembre
era padrone della situazione. Re Francesco aveva lasciato Napoli e si era
ritirato a Gaeta, con un forte nerbo d'esercito. Per Cavour il problema
essenziale era quello di portare le conquiste garibaldine nell'alveo della
volontà moderata, evitando che Garibaldi prendesse iniziative ulteriori. La
presenza a Napoli di Giuseppe Mazzini, di numerosi repubblicani di Francia e
d'Italia, degli elementi più accesi e decisi del partito d'azione, la
dichiarata volontà di Garibaldi di voler proseguire per Roma, per abbattere il
potere temporale dei Papi e dare Roma all'Italia, determinava una situazione
inquietante, che avrebbero certamente provocato l'intervento o dell'Austria o
della Francia, alterando i difficili equilibri europei.
La situazione politica, quindi , in quella estate del
1860 era pericolosa ed occorreva prendere iniziative concrete.
Se a Napoli il partito dei rivoluzionari, dei
repubblicani, dei progressisti era fermamente intenzionato ad agire, a Roma le
cose non erano più tranquille. Pio IX era ormai sotto l'influenza del partito conservatore, chiamato in quel
tempo, ultramontano, nonostante gli sforzi del Cardinale Antonelli, esponente
del partito moderato, di ricondurre
tutto nell'alveo di un civile equilibrio, attraverso gli accordi con le potenze
amiche, soprattutto Austria e Francia. Dopo la perdita delle Romagne, il
partito ultramontano aveva acquisito ulteriore influenza ed aveva imposto a Pio
IX la nomina di Monsignor Xavier De Merode[1].
Questi era sempre più convinto che le corti europee, soprattutto dopo il
Congresso di Parigi del 1856, andavano adottando principi e metodi che si
discostavano sempre più dalla alleanza trono-altare. Lo Stato Pontificio
doveva, quindi, in questa ottica, pensare direttamente a se stesso. E' una
linea politica che si scontra con l'elemento moderato ed italiano del Quirinale[2]
impersonificata dal Cardinale Antonelli., convinto assertore che contro gli
eventi che si stavano maturando in Italia era stolto opporsi con la forza.
Gli esponenti del
partito ultramontano, e De Merode in particolare, non perdevano
occasione per scagliarsi contro la
rivoluzione e di bandire, nel contempo, ogni elemento italiano, chiamato al
tempo indigeno, dalla corte e dal governo pontificio, elemento ritenuto
infido, corrotto e traditore. In questo fervore non poteva evidenziarsi la
scarsa fiducia, se non il malanimo verso la Francia di Napoleone III. Non si
aveva più nessuna fiducia in Parigi ed a Roma si andò oltre le linee. L’ira
contro Napoleone III era divenuta così
stranamente esagerata, che le dame del Sacro Cuore, nel convento di Santa Rufina, gli avevano dato il nome di
" primogenito del demonio" ed il Margotti lo aveva definito "
l'uomo dalle tredici coscienze", per giungere alla "Civiltà Cattolica
", la rivista dei gesuiti, che ad ogni numero non risparmiava i più
ingiuriosi epiteti.
In questo clima dichiaratamente ostile alla Francia,
in cui sia il Comandante in Capo delle truppe francesi, gen. Goyon, sia
l'Ambasciatore Gramont, mostravano di non capir nulla, l'ambasciatore austriaco
Hubner, recentemente nominato, lasciava credere a tutti che la guerra era
imminente; e una vittoria dell'Austria sicuramente sarebbe basta a cancellare
tutto quello che i Sardi e i loro amici rivoluzionari avevano conquistato negli
ultimi mesi, umiliando l'influenza francese in Italia e dando una lezione al
Regno di Sardegna dieci volte più significativa di quella del 1848-1849. Questo era il grande desiderio e la grande
speranza non solo di Pio IX ma di tutto i partito ultramontano. Nonostante le
dichiarate asserzioni di Napoleone che la Francia non avrebbe mai abbandonato
Roma, e la presenza stessa delle truppe francesi, De Merode ed il suo partito
confidava nell'Austria e, subordinatamente, nelle proprie forze
armate.
Del resto la nomina di De La Moricière a Comandante in
Capo dell'Esercito Pontificio era stato
un gesto estremamente significativo in
chiave antinapoleonica.
Napoleone III, peraltro, era mal servito dalla sua
diplomazia a Roma non aveva chiara la situazione che si era maturata:
comprendeva solo che il partito legittimista, a lui ostile aveva una grande influenza su Pio IX,
generando ulteriore confusione e dubbi.
Nei contrasti fra Napoleone III ed i suoi protetti, si
inserisce abilmente Cavour. Nessuno
meglio del Treitschke condensò, subito dopo gli avvenimenti, in poche parole
l'opera audace e spregiudicata del
ministro sardo:
"Cavour
concepì il disegno di annullare con un colpo improvviso l'esercito della
ristorazione di Lamoricièere, poi di effettuare l'unione del Mezzogiorno e così
salvare coll'unità d'Italia, anche l'autorità della corona. Egli stesso
considerò più tardi questo ardito pensiero come il migliore titolo della sua
gloria: 'La monarchia era perduta se noi non eravamo presto al Volturno!'. Il
28 agosto Farini e Cialdini furono ricevuti dall'imperatore a Chambéry; essi
rappresentavano che l'esercito legittimista della Curia minacciava il suo trono
stesso; che Garibaldi voleva chiamare a sé Charras, l'antico avversario di
Napoleone; che la spedizione del Veneto diventava una necessità, appena
Garibaldi movesse sopra Roma. E allora che cosa
accadrebbe di ogni ordine civile, se la monarchia non istrappava il
pugnale dalle mani del partito d'azione? Così stretto e messo al muro Napoleone
non osò opporsi; ma il famoso faites, mais faites vite, che gli fu posto
in bocca, non lo ha mai detto."[3]
Napoleone non ha mai pronunciato tali parole, ma ormai
è chiaro che l'Imperatore si lasciò penetrare anche troppo dalla politica del
Cavour, che intuì di poter osare. Napoleone III non voleva l'unità d'Italia,
che significava una perdita di influenza nella penisola. Il suo atteggiamento
nel 1859 era apparso quanto mai chiaro.
Mirava a sostituire l'influenza austriaca con quella francese per controbattere
e di equilibrare quella inglese., in un contesto generale. Per questo era
risoluto a non voler abbandonare Roma, che cadrà in mani italiane solo quando
lui cadrà a Sedan. Quando le truppe sarde passeranno il confine pontificio,
l'11 settembre 1860, Napoleone III, estremamente turbato, richiamo il suo ambasciatore da Torino.[4]
Nel contempo ordinò di rafforzare la
guarnigione francese a Roma. Questo ordine
fu interpretato in modo equivoco
dall'ambasciatore francese a Roma, Gramont, tanto che lo stesso Gramont
telegrafò al conte de Courcy, vice console francese ad Ancona, l'11
settembre, lasciando prevedere un intervento francese.[5]
Come vedremo copia di questo dispaccio fu inviata dal De Merode a De La Moricière che lo ricevette il 16
settembre .
In realtà Napoleone III sarebbe intervenuto solo se i
Sardi avessero attaccato Roma ed il Patrimonio di San Pietro, l'odierno Lazio;[6]
e non si sarebbero mossi qualora le Marche e l'Umbria sarebbero state
invase. Napoleone III da Chambéry non rientrò a Parigi, ma si recò in Algeria,
dove si fermò fino al termine delle operazioni nell'Italia Centrale, nella
convinzione che in Africa sarebbe stato ben più lontano dalle pressioni e dalle
agitazione che sicuramente si sarebbe provocata
stando a Parigi.
Questo gli
attirò l'accusa di tradimento da parte del partito cattolico e l'odio viscerale
di tutto il partito ultramontano, che vide in questo atteggiamento la conferma
di quanto si pensasse a Roma dell'Imperatore.
Ma se da parte
francese il non intervento francese poteva anche essere ipotizzato, tutti gli
eventi del settembre 1860 da parte
pontificia furono condizionati dalla convinzione che l'Austria si sarebbe
sicuramente mossa, e con una guerra decisiva, si sarebbe ripresa non solo la
Lombardia ma avrebbe ripristinato il suo predominio e l'autorità dello Stato
della Chiesa sulle Romagne e restituito i Lorena a Firenze. Ma a Vienna si era
iniziato a pensare che in Italia la migliore politica era quella della
difensiva. Non era possibile tenere tutto l'Impero unito lanciando guerre successive. L'Ungheria era il vero problema e
tutte le forze dovevano essere concentrate
affinché i magiari rimanessero nell'Impero. Vienna
aveva timore che rivolte ed insurrezioni scoppiassero in Ungheria, dando
inizio al processo di sfaldamento dell'Impero. Non ci si nascondeva che Kossuth
era in Italia e con lui il Thurr e il Klapka e soprattutto non si ignorava i
loro accordi e le loro intese con Cavour, la formazione della legione ungherese[7],
e i progetti di portare la rivoluzione a
Budapest. Non per altro, dopo quanto successo nel meridione, Vienna
sottolineava che i tre principali indipendisti ungheresi fraterni amici sia di
Garibaldi che di Mazzini erano a Napoli. Paralizzata dal non intervento, in
considerazione anche dei difficili rapporti con lo Zar, preoccupata dalla
situazione interna soprattutto ungherese,
l'Austria non si mosse. L Stato
Pontificio doveva fare assegnamento solo sulle proprie forze, secondo quanto
sosteneva il De Merode, oppure seguire gli avvenimenti, senza opporvisi,
cercando di sfruttare le occasioni che si presentavano, in un abile politica di
contenimento, secondo quanto sosteneva
il Cardinale Antonelli.
Ottenuto il
tacito accordo del non intervento francese, Cavour ordinò di provocare una
sollevazione antipapale ad Urbino e nel Montefeltro, mentre il Masi doveva
sconfinare dalla Toscana al fine di
ottenere un pretesto per invadere le Marche e l'Umbria.
Tale insurrezione
aveva anche lo scopo di giustificare, agli occhi degli Italiani,
l'intervento nel sud, affinché non fosse palese che tutta l'operazione aveva lo
scopo di eliminare dalla scena politica italiana il partito d'azione e
Garibaldi. I rapporti tra Cavour e
Garibaldi furono sempre pessimi. Durante tutta la spedizione dei Mille, Cavour era impaziente di prendere azioni contro
Garibaldi, non facendone mistero con i suoi diretti collaboratori e con i suoi
amici. Del resto in quei giorni Garibaldi , con frasi anche banali additava
Cavour all'odio pubblico. Esempi
significativi sono il proclama ai palermitani, il colloquio di Caserta con
Silvio Spaventa[8], il
non voler accettare il plebiscito, la grande intesa con Bertani e con Crispi,
dichiaratamente anticavourriani,. Esempi chiari, sottolineati dall’ordine dato
a settembre da Garibaldi al colonnello Tripoti a Teramo "Ricevete i piemontesi a fucilate". L'insurrezione,
quindi serve anche a giustificare l'azione verso Garibaldi. Cavour aveva anche
valutato che Re Francesco era abbastanza forte nel nord del suo reame, ovvero a
Napoli e negli Abruzzi. E che cominciava
a manifestarsi una reazione a suo favore. I 40.000 soldati borbonici schierati
sul Volturno erano una reale minaccia, che una calata da nord delle regie truppe sarde, avrebbe di molto
annullato. Cavour aveva le idee molto chiare, ed il piano che via via stava elaborando, alla fine di agosto
presentava le condizioni per essere attuato.
Cavour, ai primi di settembre,
scriveva al colonnello Efisio Cugia, capo di stato maggiore del IV corpo d'Armata, la seguente lettera , che rileva la sua
impazienza, le sue ansie e il suo animo verso Garibaldi:
"Carissimo
amico,
ti
ringrazio delle buone notizie, che mi trasmetti col tuo foglio del 31 andante.
Se le Marche sono in condizione di fare un moto serie, lo aiuteremo, e la
faremo finita con Lamoricière. Non possiamo aspettare Garibaldi alla Cattolica;
ma lo incontreremo al confine del regno di Napoli; credo che potremo lottare
con lui. Il moto delle truppe verso il confine è cominciato. Tu sei
all'avanguardia, ma ne consolo ché così avrai campo di farti onore e di passare
presto dal comando di una brigata a quella di una divisione.
Si cerca di
tenere coperto il nostro progetto, col dire che gli apparecchi si fanno per
Napoli. Addio, mi scriverai il giorno in cui sarai entrato in Ancona Tuo
affezionatissimo C. Cavour" [9]
Il 7 Settembre
1'azione di quelle che successivamente saranno chiamate le forze insurrezionali
ha inizio, coordinata dal Comitato di Rimini. Insorgono oltre Pergola, Santa
Agata Feltria, Fossombrone, Pesaro, Fano, avendo successo ovunque meno che a
Pesaro e Fano ove la presenza di guarnigioni pontificie bloccò sul nascere ogni
azione. La notizia delle sollevazioni
pro - nazionali nell'urbinate provoca 1'immediata reazione pontificia: già il 9
Settembre 1860 due colonne mobili, della Brigata De Courten, muovono da Macerata
verso il nord delle Marche, con il dichiarato scopo di soffocare ogni tentativo
di ribellione al potere dei Papi. Questa iniziativa militare avrà delle
ripercussioni nel corso delle operazioni iniziali della campagna delle Marche e
dell'Umbria[10]
Mentre le
Marche settentrionali iniziano ad insorgere il Cavour attua il suo piano: i giornali di Torino
annunziano a grossi caratteri la notizia
che nelle Marche è in corso una insurrezione contro il papato e questa notizia
viene diffusa, per telegrafo in tutta Europa.. Nel contempo prende l'iniziativa diplomatica inviando un
ultimatum politico - diplomatico al Governo Pontificio. Ordinò al conte Della
Minerva, che era stato l'ultimo ambasciatore a Roma, di partire per Roma. Della
Minerva, partito il 7 settembre da Genova,
sbarcò a Civitavecchia con un giorno di ritardo, il 9 anziché l'8
settembre, a causa di una burrasca nell'alto Tirreno. Il delegato pontificio
non gli permise di proseguire, benché egli affermasse di essere latore di una
lettera pressante di Cavour per il Cardinale Antonelli. Il delegato ritirò lui
la lettera e la fece recapitare al segretario di Stato.
Tale ultimatum[11]concepito
proprio per non essere accettato,
prevedeva che se le forze nazionali operanti nelle Marche verranno affrontate e
disperse dall'Esercito Pontificio, questo provocherà 1'intervento dell'Esercito
Sardo[12],
intervento resosi necessario per tutelare gli interessi nazionali e le
aspirazioni all'italianità dei marchigiani. Era un ultimatum non corretto nella
forma, come si può notare,
soprattutto in quei passi in cui
chiedeva lo scioglimento dell'Esercito Pontificio. Questo fu fatto notare anche
dalla stampa e dai partiti liberali
inglesi, notoriamente vicini alle posizioni del Cavour. Ma Cavour aveva fretta ed agi di conseguenza. In attesa
della risposta pontificia, che Cavour si
aspettava per il 9, al più tardi, per il 10 settembre, il 9 settembre comunicò
a tutti i rappresentanti diplomatici del Regno di Sardegna presso le Corti
d'Europa, che il governo pontificio si era rifiutato di soddisfare "
le giuste richieste del suo sovrano e che perciò era costretto a far ricorso ad
una azione di guerra "[13] Nel
contempo aveva ordinato a Fanti di avviare i preliminari per passare la
frontiera
La risposta pontificia,[14]
l'11 Settembre 1860, non si fece attendere: 1'ultimatum è respinto con ferme
parole, non prive di argomentazioni valide e con una certa dignità.
Ma oramai la parola era passata alle armi, essendosi
già messa in moto la macchina dell'invasione. .
Alle ore 12 del
10 Settembre 1860 il Capitano di Stato Maggiore dell'Esercito Sardo, Farini, si
presentò al Quartier Generale dell'Esercito Pontificio a Spoleto, recante un
ultimatum militare, che fu presentato al Generale De La Moricière, Comandante
in Capo dell'Armata Papale. Questo ultimatum era a firma del Generale Fanti,
posto dal Cavour a capo delle forze d'invasione sarde[15],
ove "si dichiarava che, per ordine
di Vittorio Emanuele , Re di Sardegna, il territorio pontificio sarebbe stato
subito invaso dalle truppe sarde, se da parte dell'Esercito Pontificio vi fosse
stata una qualsiasi repressione di manifestazioni di sentimenti popolari, e se
manifestazioni del genere fossero assecondate , ritirando immediatamente
l'Esercito dai luoghi dove esse avvenivano"[16]
ovvero la richiesta prevedeva la richiesta di sgombero delle Marche e
dell'Umbria da parte dell'Esercito Pontificio.
De La Moricière nella sua relazione così scrive:
"Fui
indignato dalla lettera consegnatami e, poiché il capitano Farini, al quale
avevo fatta cortese accoglienza, mi disse di essere a conoscenza del contenuto
della lettera di cui era latore, gli feci osservare che mi si proponeva di
evacuare senza conflitto provincie di cui mi era stata affidata la difesa: che
per me e il mio esercito ciò sarebbe stata una vergogna e un disonore; che il
re del Piemonte ed il suo generale avrebbero potuto fare a meno di inviarmi
tale diffida , dichiarandoci più lealmente
la guerra; infine , che, nonostante la superiorità numerica del
Piemonte, noi non avremmo dimenticato che per difendere l'onore oltraggiato del
governo di cui sono al servizio, ufficiali e soldati non devono tener conto né
del numero dei nemici, né della salvezza della loro vita"[17]
Anche questo
ultimatum venne naturalmente respinto determinando l'inizio delle ostilità, a
decorrere dalla mezzanotte del 10 Settembre.
Alle truppe sarde furono indirizzati ordine del giorno da parte di Vittorio
Emanuele, Fanti, Morozzo della Rocca e Cialdini. Vittorio Emanuele nel suo ordine del giorno sottolinea che le
truppe entrano nelle Marche e nell'Umbria " per liberare le infelici provincie
dell'Italia dalla presenza di
avventurieri stranieri"[18] Un
proclama che rileva gli accordi con la Francia e la parte del progetto
cavourriano di intervento, ove si nasconde abilmente l'obbiettivo di giungere
al Sud, a neutralizzare Garibaldi. Né il Governo né la diplomazia pontificia riescono a cogliere questo
messaggio, e per tutta la durata della campagna sperano in un intervento francese
ed austriaco. Ci si attarda sulle recriminazioni ed invettive come quella del
vescovo di Orlèans, che commentando l'invasione
scrive:
"Così,
senza una dichiarazione di guerra . senza nessuna delle decorose forme
convenzionali che sono l'ultima salvaguardia dell'onore fra i popoli civili,
come se vivessimo ancora nella più oscura barbarie, masse armate invasero gli
stati pontifici"[19] Ma lo Stato Pontificio fu abbandonato da tutte
le corti d'Europa. Le cattoliche Austria e Spagna, la scismatica Russia e la
Prussia protestante, furono unanimi nel protestare e ritirare i loro ambasciatori accreditati presso il Regno di
Sardegna, come del resto fece la Francia. Solo la Gran Bretagna lasciò il suo ambasciatore a Torino. Questa
protesta, però, rimase solo tale e non fu seguita da alcun atto concreto.
Nessuno in Europa voleva salvare gli ultramontani di Roma.
I proclami dei comandanti in capo delle truppe furono
più rudi e militareschi, del resto indirizzati a truppe in procinto di entrare
in azione.
Fanti
sottolineava che i soldati
sardi avevano dovuto abbandonare le
proprie case ed il loro paese per combattere
quelli che venivano indicati come " uomini senza patria né tetto,
che avevano piantato sul suolo dell'Umbria
la falsa bandiera di una assurda religione"
Cialdini, dimenticando che nel 1848 aveva rivestito il
grado di colonnello nell'Esercito Pontificio e sotto le sue bandiere aveva
combattuto nel Veneto e vi era stato ferito, dal Quartier Generale di Rimini,
l'11 settembre invia questo proclama:
"Soldati
del IV Corpo, vi conduco contro una masnada di briachi stranieri, che sete
d'oro e vaghezza di saccheggio trasse nei nostri paesi. Combattete, disperdete
inesorabilmente quei compri sicari, e per mano vostra sentano l'ira di un
popolo, che vuole la sua nazionalità e indipendenza. Soldati!l'inulta Perugia
domanda vendetta e, benché tarda,
l'avrà. Enrico Cialdini"
All’alba dell11 settembre le truppe Sarde passano il
confine, dando inizio alle operazioni di invasione. Ogni azione, ogni gesto da
parte sarda è indirizzato ad agganciare in campo aperto le forze mobili
pontificie e disperderle; da parte pontificia tutto è indirizzato a resistere
possibilmente in qualche piazzaforte, in attesa dei già annunciati aiuti delle
Potenze amiche, sopratutto l’Austria.
Si delinea così le volontà delle parti, che si
esplicano in una fase concettuale, teorica per la focalizzazione degli
obbiettivi, ed una fase esecutiva, ovvero la realizzazione di quelle azioni
necessarie per la realizzazione ed il conseguimento dei medesimi.
Nessuno delle due parti aveva progettato la battaglia
che si accese il 18 settembre nella piana del Musone: una la ricercava, l’altra
la voleva assolutamente evitare. Pertanto la battaglia di Castelfidardo fu una
battaglia d’incontro, combattuta al seguito ed al susseguirsi degli eventi.
1
Federic Francois Xavier de Merode
nacque a Bruxelles nel 1820. Dopo aver ricevuto una educazione tipica della
medio borghesia agiata, nel 1839 entra nella Scuola Militare, ove ne esce due
anni dopo con il grado di sottotenente, al 10 Reggimento di Linea..
L'impatto con la vita militare non è
positivo e chiede al Re Leopoldo I di accordargli il permesso di servire
nell'esercito francese. Raggiunta l'Algeria, è aggregato allo Stato Maggiore
personale del Maresciallo Bugeand.. Nelle operazioni che seguirono alla
battaglia d'Isly (1844) mette in luce coraggio e spirito d'iniziativa,
meritando la croce della Legion d'Onore. Nel 1845 rientra in Francia. Dopo un
viaggio a Roma, chiede di dimettersi dall'esercito per seguire la vocazione religiosa. Dimesso con il grado
di Capitano, il 22 dicembre 1847 è esonerato da tutti i servizi nell'esercito.
Dopo un noviziato intenso, il 23
dicembre 1848 riceve la tonsura ed inizia la carriera religiosa. IL biennio
1848-1849 per l'Europa e per lo Stato Pontificio. De Merode in questi frangenti
compie numerose azioni rischiose, tra cui quella di attaccare per i portoni
della Roma rivoluzionaria ed anticlericale, la lettera di scomunica che Pio IX
ha mandato al Governo Provvisorio. . In una di queste è arrestato e tradotto in
carcere. Evade, aiutato dalla figlia del suo carceriere: il giovane
ex-capitano, anche se prete, sapeva usare ogni mezzo per uscire da difficili
situazioni. Dopo il rientro in Roma del Papa, De Merode è ordinato sacerdote il
22 settembre 1849. Il 12 aprile 1850 Pio IX lo nomina cameriere segreto
partecipante. Con il passare degli anni De Merode acquista sempre più
influenza, divenendo uno degli esponenti di spicco del partito ultramontano .
Con l'intervento della Francia in Italia, la perdita delle Romagne e
l'annessione degli Stati dell'Italia Centrale al Regno di Sardegna, Pio IX si
convince che lo Stato va difeso anche con il proprio esercito. E' il momento di
maggior fulgore per De Merode: chiama al comando dell'Esercito Pontificio il
gen. De La Moricière, bandisce una crociata legittimista in tutta Europa,
chiama i cattolici a difendere la cattedra di San Pietro, svolge una azione
diretta a rafforzare le difese. Dopo la caduta di Ancona continua a potenziare
l'Esercito Pontificio.
Ma l'evolversi della
situazione internazionale e la convenzione di settembre 81864) lo pongono in
contrasto con Pio IX e si accentua il suo disaccordo con l'Antonelli.. Il 6
ottobre 1865 è sostituito come Pro Ministro per le Armi dal gen. Kanzler,
accettando di divenire il Cappellano Militare di Pio IX., perdendo via via ogni
influenza politica. Con il 1870
Si ritira a vita priva,
conduce numerose speculazioni finanziare, tutte molto fortunate, con le quali
da vita a numerose istituzioni di beneficenza. Si spegne nel 1874.
[2] Il Papa e
la sua corte fino al 1870 risiedeva
al Palazzo del Quirinale; con
l'entrata delle truppe Italiane nel settembre 1870 si ritirò nella cosiddetta
città Leonina, sul colle del Vaticano, che poi, nel 1929 divenne la Città del Vaticano.
[3] De Treitschke
,E., Il Conte di Cavour, trad. di A. Guerrieri Gonzaga, Firenze,
Barbera, 1873
[4] L'ambasciatore sardo a
Parigi, Costantino Nigra, nella visita di congedo testimonia che Napoleone III,
stringendogli la mano bonariamente, disse " au revoir, mon cher
Nigra"., significando che una lezione ai legittimisti di Roma non gli
sarebbe dispiaciuta.
[5] Il dispaccio così era concepito. "L'Imperatore ha scritto da Marsiglia al Re
di Sardegna che se truppe piemontesi penetreranno nei territori pontifici, sarà
costretto ad opporvisi; Ordini sono già stati impartiti per l'imbarco di truppe
a Tolone e questi rinforzi giungeranno immediatamente. Il governo
dell'Imperatore non tollererà la colpevole aggressione del governo Sardo. In
qualità di viceconsole di Francia voi dovete regolare la vostra condotta in
conformità. Firmato Gramont."
[6] Il 1
settembre 1860 il generale de Nouè, che comandava la guarnigione ausiliaria
francese di Roma, pubblicò un significativo proclama, annunziando di avere
avuto dall'Imperatore l'ordine di difendere da tutti gli attacchi la città di
Roma, la Comarca e le provincie di Civitavecchia e di Viterbo; in altre parole,
la massima parte del territorio lasciato alla Santa Sede dal 1860 al 1870.. Il
proclama aveva come significato che l'esercito francese non avrebbe esteso le
sue operazioni oltre i limiti predetti; a conferma delle intese di Chambéry.
[7] Tale legione si formo, e
nel 1867 ebbe di stanza ad Ancona
[8] Riportato dal De Cesari " il dittatore , battendo con la punta della sciabola il pavimento,
diceva: - Cavour ha il cuore più duro di questo marmo e Napoleone III ha la
coda di paglia, alla quale darò fuoco"
[9] De Cesare, R., Roma e
lo Stato del Papa, cit., pag. 397
[10] Ad
Urbino alle ore 7 dell'8 settembre 1860, l'avanguardia delle forze
insurrezionali, dopo un breve scambio di
fucilate con una pattuglia pontificia, occupa porta Santa Lucia e giunse a
Piazza San Francesco. I pontifici, due compagnie di ausiliari ed una quarantina
di gendarmi al comando del cap. Gennari, furono sorpresi ed opposero una
resistenza che durò meno di un'ora. Si ebbero un morto ed una decina di feriti
fra i pontifici, nessuno tra gli insorti. Abbattuti gli stemmi pontifici, fu
subito creato un governo provvisorio con
a capo il marchese Luigi Tanari, che svolse anche le funzioni di regio
Commissario Sardo. Alla sera del 9 settembre, due giorni prima dell'inizio
dell'invasione vi erano concentrati circa 2000 delle forze insurrezionali. Moti
insurrezionali in questi giorni scoppiarono anche ad Ancona e a Camerano, ma la
situazione fu subito posta sottocontrollo dal Comando della Piazza di Ancona.
[11] Il testo dell'ultimatum è
il seguente:
Torino, lì 7 settembre 1860
Eminenza,
il governo di S.M. il Re di Sardegna non poté vedere senza grave
rammarico la formazione e l'esistenza dei corpi di truppe mercenarie straniere
al servizio del Governo Pontificio. L'ordinamento di siffatti corpi non
formati, ad esempio di tutti i Governi civili, di cittadini del paese, ma di
gente di ogni lingua, nazione, e religione, offende profondamente la coscienza pubblica
dell'Italia e dell'Europa. L'indisciplina inerente a tale genere di truppe,
l'improvvida condotta dei loro capi, le minacce provocatrici di cui fanno pompa
nei loro proclami, suscitano e mantengono un fenomeno oltremodo pericoloso.
Vive pur sempre, negli abitanti delle Marche e dell'Umbria, la memoria dolorosa
delle stragi e del saccheggio di Perugia. Questa condizione di cose, già da per
se stessa funesta, lo divenne di più dopo i fatti che accaddero nella Sicilia e
nel reame di Napoli. La presenza dei corpi stranieri, che ingiuria il
sentimento nazionale, ed impedisce la manifestazione dei voti dei popoli,
produrrà immancabilmente la estensione dei rivolgimenti nelle provincie vicine.
Gl'intimi rapporti che uniscono gli
abitanti delle Marche e dell'Umbria con quelli delle Provincie annesse agli
Stati del Re e le ragioni dell'ordine e della sicurezza dei propri Stati
impongono al Governo di S. Maestà di porre per quanto sta in lui immediato
riparo a questi mali. La coscienza del re Vittorio Emanuele non gli permette di
rimanersi testimonio impassibile delle sanguinose repressioni, con cui le armi
dei mercenari stranieri soffocherebbero nel sangue italiano ogni manifestazione
di sentimento nazionale. Niun governo ha diritto di abbandonare all'arbitrio di
una schiera di soldati di ventura gli averi, l'onore, la vita degli abitanti di
un paese civile.
Per questi motivi, dopo aver chiesti gli Ordini di Sua Maestà il Re mio
augusto sovrano, ho l'onore di
significare a Vostra Eminenze, che le truppe del Re hanno incarico d'impedire,
in nome dei diritti dell'umanità, che i corpi mercenari Pontifici reprimano
colla violenza l'espressione dei sentimenti delle popolazioni delle Marche e
dell'Umbria.
Ho inoltre l'onore d'invitare Vostra Eminenza per i motivi
sovraespressi a dar l'ordine immediato di disarmare e disciogliere quei corpi,
la cui esistenza è una minaccia continua alla tranquillità d'Italia. Nella fiducia
che Vostra Eminenza vorrà comunicarmi tosto le disposizioni date dal Governo di
Sua Santità in proposito, ho l'onore di rinnovarle gli atti dall'altra mia
considerazione.
Di Vostra Eminenza
Firmato C. Cavour. i
[12] La
dizione Esercito Italiano è usata in più testi. L'Esercito Sardo assume la
dizione di esercito Italiano nel 1861, ovvero l'anno dopo gli avvenimenti di
Castelfidardo. Si userà quindi sempre in questo volume, la dizione di Esercito
Sardo. Del pari, si userà anche la dizione "piemontese" per indicare
il Regno di Sardegna e le sue Forze Armate, adottando l'uso comune di
identificare il Regno di Sardegna con la regione del Piemonte, anche se tale
Regno, nel 1860, comprendeva oltre la Sardegna e il Piemonte, anche la Valle
d'Aosta, la Liguria, la Lombardia, e per
i plebisciti del 1959, la Toscana e l'Emilia Romagna.
[13] O'Clery K.P.,
Risorgimento Controluce, - La Questione italiana vista da uno zuavo di Pio IX,
, a cura di De Cesare G, Scognamiglio G., Editore Colombo, Roma, 1965, pag, 169
[14] IL testo della risposta è
il seguente:
Eccellenza
Astraendo dal mezzo di cui Vostra Eccellenza stimò valersi per farmi
giungere il suo foglio del 7 corrente, ho voluto con tutta calma portare la mia
attenzione a quanto Ella mi esponeva in nome del suo Sovrano, e non posso
dissimularle che ebbi in ciò a farmi una ben forte violenza. I nuovi princìpi
di diritto pubblico, che Ella pone in
campo nella sua rappresentanza, mi dispenserebbero per verità da qualsivoglia
risposta, essendo essi troppo in opposizione con quelli sempre riconosciuti
dall'universalità dei Governi e delle Nazioni. Ma tocco al vivo dalle
incolpazioni, che si fanno al Governo di Sua Santità, non posso ritenermi dal
rilevare dapprima essere quanto odiosa, altrettanto priva di ogni fondamento ed
affatto ingiusta, la taccia che si porta contro le truppe recentemente
formatesi dal Governo Pontificio; ad essere poi inqualificabile l'affronto che
ad esso vien fatto nel disconoscere in lui un diritto a tutti gli altri
comune., ignorandosi fino ad oggi che sia impedito ad alcun governo di avere al
suo servigio truppe estere, siccome in fatto molti le hanno in Europa sotto i
loro stipendi. Ed a questo proposito sembra qui opportuno notare che, stante il
carattere che riveste il Sommo Pontefice di comune padre di tutti i fedeli,
molto meno potrebbe a Lui impedirsi di accogliere nelle sue milizie quanti gli
si offrono dalle varie parti dell'orbe cattolico, in sostegno della S. Sede
degli Stato della Chiesa.
Niente poi potrebbe essere più falso ed ingiuroso, che l'attribuirsi
alle truppe pontificie i disordini deplorevolmente avvenuti negli Stati della
Santa Sede, né qui occorre il dimostrarlo. Doppoichè la storia ha già
registrato quali e donde provenienti siano state le truppe, che violentemente
imposero alla volontà delle popolazioni, e quali le arti messe in opera per
gettare nello scompiglio la più gran parte dell'Italia, e manomettere quanto
v'ha di più inviolabile e di più sacro per diritto e per giustizia.
E rispetto alle conseguenze, di cui si vorrebbe accagionare la
legittima azione delle truppe della S. Sede, per reprimere la ribellione di
Perugia, sarebbe invero stato più logico l'attribuirle a chi promosse la
rivolta all'estero: ed Ella, signor Conte, troppo ben conosce donde quella
venne suscitata, donde furono somministrati danaro, armi e mezzi di ogni
genere, e donde partirono le istruzioni e gli ordini di insorgere.
Tutto pertanto dà luogo a conchiudere, non avere che il carattere della
calunnia quanto declamasi da un partito ostile al Governo della Santa Sede a
carico delle milizie, ed essere non meno calunniose le imputazioni che si fanno
ai loro capi, dando a crederli come autori di minacce provocatrici, e di
proclami propri a suscitare un pericolo fermento.
Dava poi termine alla sua disgustosa comunicazione l'Eccellenza Vostra,
coll'invitarmi in nome del suo Sovrano ad ordinare immediatamente il disarmo e
lo scioglimento delle suddette milizie, e tal invito non andava disgiunto da
una specie di minaccia di volersi altrimenti dal Piemonte impedire l'azione di
esse, per mezzo delle regie truppe. In ciò si manifesta una quasi intimazione,
che io ben volentieri qui mi astengo di qualificare. La Santa Sede non potrebbe
che respingerla con indignazione, conoscendosi forte del suo legittimo diritto,
ed appellando al gius delle genti, sotto la cui egida ha fin qui vissuto
l'Europa; qualunque siano del resto le violenze, alle quali potesse trovarsi
esposta senza averle punto provocare, e contro le quali fin da ora mi corre il
debito di protestare altamente in nome di Sua Santità
Di Vostra Eccellenza,
Firmato: G.Card Antonelli.
Roma 11 settembre 1860
[15] Per
il quadro di battaglia del Corpo di Invasione delle Marche e dell’Umbria, Corpo
posto, sotto il comando del gen. Manfredo Fanti, e comprendente il IV e il V
Corpo d’Armata, si invia al volume I, L’anno di Castelfidardo.
[16] O' Clery. K., Risorgimento
controluce, cit., pag. 168
[17] Relazione De La Moriciére
[18] Il testo è il seguente.
"Ordine del
giorno del Re Vittorio Emanuele all'Esercito che entra nelle Marche e
nell'Umbria.
Soldati!
Voi entrate nelle Marche e nell'Umbria per restaurare l'ordine civile
nelle desolate città , e per dare ai popoli la libertà di esprimere i propri
voti. Non avete a combattere potenti eserciti , ma liberare infelici provincie Italiane
dalle straniere compagnie di ventura. Non andate a vendicare le ingiurie fatte
a me e all'Italia, ma ad impedire che gli
odii popolari irrompono a vendetta della mala signoria. Voi insegnerete
coll'esempio il perdono dell'offese e le tolleranze cristiane a chi stoltamente
paragonò all'Islamismo lo amore alla patria Italiana. In pace con tutte le
potenze, ed alieno da ogni provocazione, io intendo togliere dal centro
dell'Italia una cagione perenne di turbamento e di dissensione. Io voglio
rispettare la Sede del Capo della Chiesa al quale son sempre pronto a dare,
d'accordo colle potenze alleate ed amiche, tutte quelle guarentigie
d'indipendenza e sicurezza che i suoi ciechi consiglieri si sono indarno
ripromessi dal fanatismo delle sette malvagie cospiranti contro la mia autorità e la libertà della Nazione.
Soldati!
Mi accusano d'ambizione. Si, ho un'ambizione, ed è quella di rafforzare
i principii dell'ordine morale in Italia, di preservare l'Europa dai continui
pericoli della rivoluzione e della guerra.
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