centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org
mercoledì 30 maggio 2018
1859.Una strategia fallimentare. Lo Stato Pontifico e la rincoquista delle Romagne
Il piano
pontificio di riconquista delle Romagne
e quello di Garibaldi per conquistare
Ancona: il trionfo delle spie.
La volontà del partito d’azione e di tutti i patrioti
italiani di ritornare a Roma e acquisirla all’Italia, fu uno delle costanti di
quello che si definisce il decennio di preparazione, ovvero quel decennio che
va dalla sconfitta di Novara, nel 1849, all’intervento francese in Italia, che
si suole chiamare Seconda Guerra d’Indipendenza, nel 1859. Non l’armistizio di
Villafranca, tutto sembrava compromesso; le dimissioni di Cavour, la volontà
non nascosta dell’Austria di riappropriarsi di tutti i territori perduti,
l’atteggiamento enigmatico di Napoleone III, tutto consigliava alla prudenza, e
a non prendere iniziative sconsiderate. All’idea unitaria già era stata
acquista la Lombardia, con il sacrifico di Nizza e della Savoia, ma anche vi
era la prospettiva, nel settembre 1859, di acquisire gli stati della Lega
Centrale, una eventualità remota, ma possibile. Torino consigliava ed imponeva
prudenza, e Fanti, come detto, era a Firenze per attuare questa decisione.
Proprio per un caso fortuito si era venuti a conoscenza
di un piano d riconquista delle Romagne da parte del Governo di Roma, con
l’appoggio dell’Austria, nel luglio-ottobre 1859. Un corpo di spedizione
formato dalla truppe fedeli al Duca di Modena, rifugiatesi a Mantova, coperte
alle spalle dalle truppe austriache avrebbe mosso da nord mentre nel sud un
altro corpo al comando del gen. Kalbermatten e formato da regolari
dell’esercito pontificio, rinforzato da volontari legittimisti, avrebbe varcato
la frontiera tra le Marche e la Romagna con le spalle guardate dall’Esercito
napoletano. Il successo si dava per scontato stante la pochezza delle truppe
della Lega Centrale e la prevedibile sua impreparazione militare. Di tutto
questo piano, che andò a vuoto e costrinse il Governo di Roma di accantonare al
momento la riconquista delle Romagne, venne a conoscenza un finto agente pontificio,
conosciuto come Giacomo Griscelli, o anche come De Mezzani o Griselle De Mezzani, che altri non era che un agente di Napoleone
III e forse già anche del Cavour.[1]
Se i Governi di Roma e di Vienna tentavano di
organizzare una azione nelle Romagne, di contro Garibaldi e tutto il partito d’azione e rivoluzionario
operava in senso contrario: necessitava dalle Romagne, con base a Rimini, di
portare la rivoluzione in Ancona, e da qui si sarebbe estesa all’Umbria e
quindi a Roma, per ritornare nella città Eterna dopo i fasti della Repubblica romana
del 1849. Quasi di nascosto del Fanti, i Comitati Rivoluzionari operarono
affinchè i moti rivoluzionari scoppiassero nelle città delle Marche, ma sopratutto
a Pesaro ed Ancona.
Il piano di Garibaldi prevedeva la conquista della
Fortezza di Ancona; questa sarebbe stata conquistata senza colpo ferire dai
rivoluzionari grazie ad accordi ed intelligenze con i soldati del 2° Reggimento
Indigeno, ed altri militari, sempre indigeni, pontifici. Presa la Fortezza, in
contemporanea si doveva sollevare la città grazie all’azione di un migliaio di
uomini armati. Conquistata così Ancona, tutti i piccoli presidi pontifici,
tranne Pesaro, si supponeva si sarebbero ritirati verso l’interno verso gli
Appennini. I Comitati cittadini postisi a capo dei moti così suscitati in ogni
luogo, avrebbero offerto una serie possibilità di intervento alle truppe della
Lega Centrale, e soprattutto a Garibaldi, che si sarebbe fatto trovare lungo la
linea di confine, con il pretesto di ispezionare le posizioni tra la Romagna e
le Marche. Lo schema del piano fu approvato dal Governo di Bologna, ma la
realizzazione della rivolta veniva di continuo rinviata proprio perché i
Comitati volevano questa volta essere sicuri della riuscita e volevano curare i
più minimi particolari. In queste more, un agente pontificio, che si era presentato
come il dott. Ernesto Erra, che poi userà vari nomi tra cui Ronchi, Sommaria
ecc. entrò in contatto con un esponente di una famiglia di patrioti anconetani,
che aveva un ruolo principale nella rivolta. Presentatosi come intimo di
Garibaldi, Erra ottenne la fiducia del patriota anconetano ed in breve venne a
conoscenza di tutto il piano nei minimi particolari.
Furono prese, da parte pontificia, subito delle
contromisure, ma con la massima discrezione perché si voleva giungere ad una
vastissima operazione di polizia. Il 2 ottobre 1859 furono inviate ad Ancona
quattro compagnie di soldati svizzeri notoriamente risoluti difensori del
potere papale, compagnie che avevano preso parte alla spedizione di Perugia nel
giugno 1859. Acquartierati al Lazzaretto avrebbero dovuto svolgere funzioni di
controllori delle truppe indigene, cioè italiane, della Fortezza e, indirettamente,
di monito al partito rivoluzionario
Il 17 ottobre
avvenne il primo sbarco di armi tra Senigallia ed Ancona. Il 20 ottobre arrivò
in Ancona il ten.col. Antonio Allai, della Gendarmeria Pontificia, il quale
fece rafforzare la vigilanza lungo le coste, e cosa più importante dispose il
trasferimento delle compagnie svizzere dal Lazzaretto alla Fortezza, e nel contempo,
avvicendò la truppa con altra, pur essa indigena, ma proveniente da Roma e
quindi sconosciuta ai membri del Comitato Rivoluzionario. Tale fatto
sconvolgeva i piani dei rivoluzionari e questi si affannarono per scoprire il
responsabile della delazione, anzi cedettero di doverlo cercare tra gli
Ufficiali dello Stato Maggiore di Garibaldi.
Fermi nel proposito di portare la rivoluzione in
Ancona, fu adottato un altro piano: dovevano insorgere contemporaneamente
Fabriano, Fossombrone, Jesi, Pergola e Sassoferrato, grazie alla inconsistenza
dei presidi pontifici. Risoltesi felicemente l’insurrezione in questi paesi,
essa si sarebbe estesa anche nelle località minori con la conseguenza che
Ancona sarebbe stata presa d’assedio, e al suo interno avrebbe dato vita ad una
rivolta, mentre Garibaldi, rotti gli
indugi, avrebbe varcato il confine con dodicimila uomini. L’insurrezione
avrebbe dovuto prendere le mosse da segnali luminosi che sarebbero dovuti
apparire sulle cime dei monti e di colline dal
Catria a Falconara, legando in una suggestiva catena i luoghi designati
alla rivolta.
Il piano, molto suggestivo e romantico, non trovò
applicazione. Prima Garibaldi acconsentì, poi, fra tensioni ed attriti, dovette
ritirarsi per le pressioni di Torino; poi si constatò che era svanito
l’elemento sorpresa e che i Pontifici stavano sul chi va là. Oramai, però, la
macchina era in moto e nonostante che il Comitato di Rimini avesse mandato il
contrordine a causa della rinuncia di Garibaldi, nella notte tra il 5 e 6
novembre un fuoco era apparso sul monte Catria: questo fu interpretato come il
segnale dell’inizio della rivolta, che sarebbe scoppiata il 7 novembre: la
notizia fu immediatamente ritrasmessa a Cattolica. Non è da escludersi, anche
se non vi sono prove dirette, che il fuoco sarebbe stato acceso da agenti el
servizio informazione pontificio.
Né derivò una grande confusione, al punto che
Garibaldi, avvertito dalla sollevazione, ritornò sulla decisione presa e si
precipitò con le truppe da Bologna a Rimini ove giunse la sera dell’8 novembre.
Era stato preceduto da un telegramma di Fanti, comandante supremo delle forze
della Lega Centrale, che ordinava a Mezzacapo e a Roselli di impedire qualsiasi
sconfinamento.
Il segnale era stato colto anche ad Ancona ed intorno
alle 7 antimeridiane del 7 novembre si erano mosse le previste colonne per
Jesi, che solo all’altezza di Chiaravalle furono avvertire dell’effettivo stato
delle cose. Le colonne si dispersero e la polizia pontifica, nella notte tra il
8 e il 9 novembre procedette ad una serie di arresti e perquisizioni e fu
questione di ore se i più compromessi dei Comitati di Ancona e Jesi riuscirono
a porsi in salvo. La rivoluzione in Ancona era fallita. [2]
Di qui risentimenti, amarezze: Fanti e Garibaldi non
si riconcilieranno più. Ma da questa mancata marcia su Ancona, di questa non
capacità di portare la rivoluzione in Ancona, calmatesi le acque, portò il
Nizzardo ed il partito d’Azione a trovare altre vie per l’unità d’Italia.
Scaturì da questa mancata conquista di
Ancona, l’idea di portare la rivoluzione, sì a Roma, ma non passando per le
Marche e l’Umbria, ma dalla Sicilia e dal meridione; è il disegno di quello che
nella primavera del 1860 darà vita alla celeberrima Spedizione dei Mille. Ed ancora Fanti, per impedire a Garibaldi di
giungere a Roma, alterando gli equilibri politici, sarà a capo delle forze
d’invasione che, acquisite alla causa nazionale le Marche e l’Umbria conquistando
Ancona[3],
costringeranno a Teano il Nizzardo a desistere da ogni ulteriore proposito.
massimo coltrinari
centro studi sul valore militare CESVAM
centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org
[1] Scoccianti
S., Appunti sul servizio informativo pontificio nelle Marche nel 1859-60, in “Atti e Memorie” deputazione di
Storia Patria per le Marche, Ancona, 1985
[2] Scoccianti
S., Appunti sul servizio informativo pontificio nelle Marche nel 1859-60,cit.,
pag. 325
[3]
Fanti, in sintesi, nel novembre 1859 impedisce la conquista di Ancona, nel
settembre 1860 la attua.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento