martedì 21 febbraio 2017
Edizione 2003 Nota II Parte III
massimo coltrinari
(centrostuidcesvam@istitutonastroazzurro.org)
III Parte
Ne1 corso della giornata le truppe sarde occuparono
Chiaravalle; qui si riunirono e immediatamente si rimisero in marcia verso
Jesi.
Occupata tale città nel primo pomeriggio, fu dato
ordine alla Brigata “Como”, al VII ed al XII Battaglione Bersaglieri e alla 4
a Batteria del 5° Reggimento di occupare Torre di Jesi. Il 23 Reggimento Fanteria e il VII
Battaglione Bersaglieri e una Sezione di artiglieria furono mandati in
osservazione sulla strada di Macerata. Il 24° Reggimento Fanteria, il XII
Battaglione Bersaglieri ed i rimanenti pezzi della 4 a Batteria
furono mandati sulle alture di Santa Maria Nuova, in osservazione verso Osimo.
In serata le truppe della 7 a Divisione furono raggiunte da quelle
della 4 a Divisione. La marcia fu molto pesante e tutte le truppe
arrivarono sfinite a destinazione per il caldo soffocante.
Molti si fermarono per strada: più di due terzi delle
truppe erano rimasti indietro, tanto che tre ore dopo 1'arrivo a Jesi della
testa della colonna i ritardatari erano di più della metà.
Alla sera del 15 Settembre, secondo giorno della
attuazione della manovra, la situazione delle truppe sarde del IV Corpo era la
seguente: la 4 a Divisione a
Jesi; 1a 7 a Divisione a Jesi;
Brigata “Como” , VII, XII Battaglione Bersaglieri e 4 a
Batteria a Torre di Jesi; Riserva
d'Armata a Jesi.
Il Generale Cialdini ricevette le notizie circa i
movimenti del De La Moricière: il Comandante Pontificio per raggiungere Ancona
poteva, secondo apprezzamento del suo comando, percorrere le seguenti
strade: Macerata-Monte Cassiano-Monte
Fano- Osimo, di chilometri 31, che era
la più diretta; Macerata-Val
Potenza-Recanati- Castelfidardo, di
chilometri 30, che era la mediana;
Macerata-Monte Lupone-Monte Santo- Santa Maria di Potenza-Porto Recanati
e Loreto, di chilometri 38, che era la più lunga. Al fine di poter intercettare
le truppe Pontificie, Cialdini doveva assolutamente occupare le alture prima di
Osimo, poi tra Osimo e Castelfidardo, e tra Castelfidardo ed il mare.
Quindi nonostante la stanchezza, la difettosa
distribuzione dei viveri ed altri inconvenienti ed impedimenti logistici,
occorreva andare avanti. Oltre a questo era necessario intervenire con azioni
diversive sulle decisioni del Comando Pontificio, costringendolo a prendere decisioni
contrarie ai suoi interessi. Tenendo presente questa ultima esigenza, il
Cialdini ideò quella che poi fu chiamata la “Diversione di Filottrano”.
“Persuaso che le poche forze del Generale De La
Moricière lo costringerebbero per qualche giorno ad essere cauto, volli tentare
di spingerlo a scegliere la strada più lunga, con uno di quegli stratagemmi
volgari, che però riescono quasi sempre in guerra. Feci partir subito uno
Squadrone di Lancieri per Filottrano, che arrivò nel cuore della notte. Secondo
gli ordini avuti il capitano dello squadrone fece gran chiasso, risvegliò e
spaventò tutto il paese, trattò arrogantemente il Municipio ed ordinò 24.000
razioni di pane, che io intendevo di prendere 1'indornani nel mio passaggio da
Filottrano per Macerata. La cosa fu certamente creduta, poiché una gran parte
delle chieste razioni fu preparata ed il municipio non avrà mancato di mandarne
avviso al generale nemico”. [1]
L'azione fu efficace. Infatti il De La Moricière prese
la strada più lunga, sia per salvare il Tesoro dell'Armata Pontificia sia per
mettersi al riparo dell'azione delle truppe sarde. Alle ore 23 del 15 Settembre
le truppe sarde si rimisero in marcia verso Osimo: in testa il VII Battaglione
Bersaglieri seguito da una Sezione della 4 a Batteria, poi di tutta
la Brigata “Como” e dal resto della 4 a Batteria. Le truppe si
misero in marcia quasi digiune, non essendo potuto arrivare a Torre di Jesi,
per la pendenza della strada, il carreggio dei viveri. La marcia durò fino alle
5 del mattino del 16 Settembre. Via via che arrivavano ad Osimo le truppe
prendevano posizione, ove vi arrivarono stremate. Appena giunte si stendevano a
terra, allentandosi le buffetterie e slacciandosi la divisa. La popolazione di
Osimo offrì pane, formaggio e vino. Osimo fu presidiata nel seguente modo: il
24° Reggimento della Brigata “Como”, si pose in riserva al centro della città,
pronto ad intervenire; due battaglioni del 23° Reggimento sempre della Brigata
“Como” furono posti a presidio della porta che guarda verso Ancona; gli altri
due battaglioni del 23° Reggimento si posero a presidio della strada di
Filottrano. Il resto del IV Corpo, si mise in cammino verso Osimo durante la
notte tra il 15 ed il 16 Settembre, tanto che alle cinque del mattino del 16
non vi erano più truppe, tranne quelle di presidio, a Jesi.
Prima si avviarono quelle della 7 a
Divisione, poi quelle della Riserva del Corpo d'Armata e poi quelle della 4
a Divisione. Anche durante la marcia verso Osimo si ebbero momenti di
scollamento nelle colonne sarde: per strada si fermavano, stanchi e provati
molto soldati, che poi raggiungevano con ritardo i propri reparti.
In mattinata (del 16 Settembre) giunse a Cialdini la
notizia che la colonna del De Pimodan da Macerata mostrava 1'intenzione di
puntare su Jesi, via Filottrano. Questa notizia, non certo ritenuta molto
fondata, fu però alla base della decisione di Cialdini di presidiare Torre di
Jesi con il 16° Reggimento Fanteria. Il Comando sardo voleva difendere Jesi, e
quindi la propria retroguardia, nonché la propria base logistica in quanto a
Jesi vi era il parco viveri e vi doveva arrivare il grande parco di riserva.
Le truppe sarde non erano allenate a marce
faticosissime, attuate in pochi giorni. Alle ore 10 del 16 Settembre Cialdini
riteneva che le posizioni raggiunte fossero sufficienti per intercettare il De
La Moricière. Dispose quindi di mandare avanti verso il mare, uno scaglione
così composto, agli ordini del Comandante della Brigata Bergamo: II e XXVI
Battaglione Bersaglieri, Reggimento “Lancieri di Novara” e la 4 a
Batteria. Gli ordini per questo scaglione erano chiari: occupare Castelfidardo
ed il quadrivio delle Crocette, scendere poi nella vallata del Musone e
spiegarsi lungo la riva del fiume e tagliare tutti i ponti verso Loreto e
Recanati. Nel rapporto al Comandante in Capo delle truppe sarde, Manfredo
Fanti, Cialdini ancora una volta sottolineava come le truppe operavano in
condizioni non certo ottimali tanto che giunsero sulle posizioni stremate. Le
truppe erano esauste. Dice il diario del IV Corpo: “Non fu mai vista stanchezza che
uguagliasse quella delle truppe in questa giornata; gettandosi nei fossi e
nelle campagne vicine, erano sorde alla voce dello stesso generale. Si aggiunga
che i carri e i viveri, i parchi e le riserve viveri tutto rimase indietro per
la natura del terreno e la rapidità della marcia. Ond'è che le divisioni
passarono letteralmente 24 ore senza mangiare .”[2]
E il Generale Cialdini nel suo rapporto: “Le salite
e le discese di Torre di Jesi quindi 1'erta di Osimo allontanarono di nuovo i
viveri dai battaglioni; il calore del giorno fu
eccessivo; le truppe arrivarono rassegnate fino ad Osimo, ma quelle che
dovettero avanzare a Castelfidardo ed alle Crocette, oppresse dalla fatica, dalla
sete, dalla sferza del sole e dalla mancanza di sufficiente alimento, giunsero
in uno stato di prostrazione che le faceva assolutamente incapaci di sostenere
il benché minimo combattimento.”[3]
Nella serata del 16 Settembre le truppe mandate avanti a Castelfidardo e a11e
Crocette furono raggiunte dalla Brigata Bergamo, dal XII Battaglione
Bersaglieri e da due pezzi del la 5 a Batteria. La 4 a
Divisione seguiva queste truppe e via via presidiava San Sabino, tra Osimo e
Castelfidardo, 1'Abbadia ed i punti dominanti de11a dorsale. La cavalleria occupò
la vallata dell'Aspio. In pratica le truppe del Cialdini si disposero sia verso
le alture di Loreto che verso Ancona, cioè presero posizioni atte a difendersi
da attacchi provenienti sia dalle truppe mobili Pontificie sia da quelle della
guarnigione di Ancona. Avevano compiuto un notevole sforzo fisico ed alla sera
del 16 Settembre 1860 non erano assolutamente in grado di combattere, anche se
presidiavano posizioni dominanti.
venerdì 10 febbraio 2017
Edizione 2003. Nota I
Lo Scontro di Loreto 18 settembre 1860
massimo coltrinari
(centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
Una battaglia d’incontro:
la fase concettuale
Nella giornata di Castelfidardo si ebbe lo scontro di
due volontà contrapposte: quella sarda e quella Pontificia. Concettualmente la
giornata nasce dalla individuazione
degli obbiettivi politico-militari che le due parti vogliono perseguire.
Tali obbiettivi si possono così identificare:
- i Sardi, in accordo con i disegni del primo ministro
Cavour, devono al più presto portare soccorso alle forze insurrezionali già operanti
nell'urbinate e minacciate dalla reazione Pontificia; in un quadro più
ampio, marciare velocemente verso il meridione d'Italia cercando di avere
ragione speditamente della possibile opposizione militare Pontificia, al fine
ultimo di portare nell'alveo moderato e monarchico la riuscita impresa
garibaldina nel Regno delle due Sicilie.
Obiettivo di primo tempo della campagna era la
conquista di Perugia, ovvero dell'Umbria, e di Ancona , ovvero delle Marche.
Obiettivo di secondo tempo, riunite le forze, marciare su Napoli;
- i Pontifici dovevano cercare di garantire, in ogni
modo e con qualsiasi mezzo, 1'integrità dello Stato e l'inviolabilità delle sue
frontiere, impedendo e, se possibile respingendo, 1'invasione sarda. Per
ottenere questo, data la manifesta inferiorità militare delle Forze Armate
Pontificie, considerando che il Lazio era presidiato dalle forze francesi, e
nella convinzione che la Francia di Napoleone III sarebbe intervenuta nella
guerra, il Comando Pontificio aveva 1'estrema necessità di garantire i
collegamenti con 1'Austria, l'altra potenza alleata ed amica dello Stato
Pontificio. Di conseguenza, era necessario portare tutte le forze mobili
disponibili nelle Marche, racchiudersi nella piazzaforte di Ancona, per
dare tempo agli Austriaci di intervenire. Questo intervento, dato per
scontato dai circoli e dalla corte pontificia, si sarebbe manifestato con
l'arrivo della flotta austriaca davanti ad Ancona e con l'inizio delle
operazioni lungo il confine orientale dell'Esercito Austriaco, che avrebbe
costretto le forze sarde operanti nelle Marche e nell'Umbria a ritirarsi.
In attesa di questo intervento, occorreva affidare la
difesa dell'Umbria alle sole forze presidiarie e di guarnigione, nella
convinzione che presto sarebbero state soccorse
ed aiutate dalle forze francesi di stanza nel Lazio.
In questo
quadro generale, era evidente che l'Esercito Pontificio doveva resistere il
tempo necessario alle grandi potenze, Francia e Austria, per intervenire.
L’obiettivo di
primo tempo era, quindi, radunare tutte le forze e portare tutte le forze
mobili, stanziate lungo 1'asse Terni - Spoleto - Foligno nelle Marche e
rinchiudersi ad Ancona. Le forze presidiare dovevano nel contempo, rinchiudersi nelle piazzeforti e resistere
fino all'arrivo delle forze francesi; obiettivo di secondo tempo, resistere
fino all'intervento franco – austriaco e/o eventualmente tentare delle sortite
di disturbo o per recuperare parte del territorio.
I due schieramenti iniziarono ad operare con velocità
operative diverse: mentre quello sardo aveva un dispositivo, già pronto all'azione, quello Pontificio ne
aveva uno che prevedeva l'attacco da Sud, a seguito di un attacco da parte
delle forze garibaldine; non prevedeva, che come eventualità remota, una
invasione da Nord; quindi il Comando Pontificio dovette impiegare il 10, 1'll,
il 12 Settembre, per cambiare il dispositivo ed avviare nelle Marche le brigate
stanziate in Umbria.
Il dispositivo sardo era il seguente:
Approntato un Corpo di Invasione e posto al Comando
del Generale Fanti, tale Corpo fu ordinato su due Corpi d’Armata, il IV ed il V
Corpo, il primo al comando del gen. Enrico Cialdini, il secondo al comando del
gen. Morozzo della Rocca. Nella sua relazione il gen. Fanti così delinea il
dispositivo Sardo
“In
seguito agli Ordini di S.M., il 10 settembre, concentrai le tre Divisioni del IV Corpo
d’Armata, comandato dal gen. Cialdini, alle frontiere delle Marche sulla linea
del Tavullo, ed una Divisione, più una brigata mista del V Corpo, la quale
venne poi denominata Divisione di Riserva, agli ordini del gen. Della Rocca
alle frontiere dell’Umbria in Arezzo e Borgo San Sepolcro. Preventivamente il
giorno 5 settembre feci imbarcare a Genova un piccolo parco d’assedio di 24
pezzi, che di conserva con la Reale Squadra, agli ordini dell’Contr’Ammiraglio
Persano, doveva recarsi d’innanzi Ancona. Le forze del nemico a combattere
sommavano approssimativamente a 25000 uomini, i quali appoggiavano alle Piazze
di Ancona, Perugia, Pesaro, Urbino, Spoleto, San Leo. Le forze di S.M.
destinate ad operare ammontavano ad un terzo di più.
Sulle
operazioni che il nemico potrebbe eseguire pensai che, concentrando ilo nerbo
delle sue forze, avrebbe cercato:
o di
prendere posizione nelle vicinanze di Ancona;
o di
ritirarsi nella Com’arca e nel Patrimonio di San Pietro;
o
finalmente di prendere posizione a cavaliere dell’Appennino, per esempio in
Gubbio, dove più volte aveva egli eseguito manovre di concentrazione facendo
aprire una strada militare su Fratta in Val Tiberina e stabilire una linea
telegrafica a Fano e a Perugia.
A
prevenire il nemico in queste diverse ipotesi, prescrissi al IV Corpo d’Armata
di marciare su Pesaro, di far rendere prontamente il forte, mandare una Divisione
per Urbino, Cagli, Gubbio, e progredire colle altre due Divisioni, per Fano
Senigallia verso Ancona, e prendere posizione in modo da interporsi fra Ancona
e Macerata. Tale mossa mi era suggerita dalla supposizione che il Generale De
La Moricière avrebbe eseguito su Macerata, il movimento di concentrazione per
ripiegarsi su Ancona, siccome più volte aveva operato a modo di esercitazione.
La 1° Divisione e la Divisione di Riserva del V Corpo, evitando la stretta del
Lago Trasimeno, dovevano operare in Val di Tevere per Città di Castello, Fratta
e Perugia, e prendendo di viva forza nel loro passaggio il forte che domina
quest’ultima, marciare su Foligno, oggettivo di questa operazione. La Divisione
del IV Corpo che riceveva ordine di agire sulla cresta dell’Appennino,
impadronendosi di Urbino, aveva per obbiettivo Gubbio, affine di tenere legati
i due Corpi che operavano separati dall’Appenino. Dalle prese disposizioni
emerge che le varie colonne marciavano scaglionatela sinistra in avanti. E tale
concetto era basato sull’idea che io aveva, che La Moricière essendo uomo più
militare che politico, sarebbe corso là dove il pericolo era più imminente.
Premesso il concetto strategico, le operazioni successive vennero subordinate a
quelle del nemico.”[1]
Il dispositivo Pontificio aveva come presupposto il
concetto che la difesa dello Stato si poteva solo imperniare sulle due
piazzaforti principali: Roma, con Civitavecchia collegata, ed Ancona. Fermo
restando che la guarnigione francese avrebbe in ogni caso presidiato e difeso
Roma, le Forze Pontificie di campagna avrebbero dovuto garantire il controllo
dell’Umbria e tenere ad ogni costo Ancona. Le minacce che si dovevano
affrontare era la rivoluzione interna, e questo avrebbe richiesto un
dispiegamento del disposto quasi a macchia di leopardo; l’altra la difesa, da
Sud dello Stato contro una invasione delle forze di Garibaldi. In questo caso,
con alle spalle Ancona, che avrebbe
garantito i collegamenti con l’Austria tramite Trieste, si dove presidiare la frontiera meridionale
dello Stato, appoggiandosi alle fortezze di Spoleto e Perugia, con punte difensive a Terni. Una minaccia rappresentata
da una invasione dal Nord da parte del Regno di Sardegna era considerata poco
credibile in quanto avrebbe sicuramente, secondo i Pontifici, provocato un
intervento austriaco. Su questo concetto le tre Brigate mobili pontificie arano
schierate a Terni ( 1° Brigata) a Spoleto (2° Brigata) e a Foligno- Perugia (3°
Brigata). Forse di collegamento e copertura garantivo i collegamenti con
Macerata e Ancona ( Brigata De Courthen)
Il conseguimento degli obiettivi delle parti
contrapposte, dopo che i reperivi dispositivi furono armonizzati con gli
obbiettivi, diedero vita a manovre che, nelle linee generali, possono così delinearsi:
Sardi: azione del V Corpo lungo la valle del Trasimeno
con il compito di intercettare le forze Pontificie stanziate in Umbria ed
annientarle; azione del IV Corpo, che
lungo la direttrice marittima, puntare su
Ancona, al fine ultimo di impadronirsene; una divisione (la 13a) doveva
assolvere il compito di raccordo tra i
due corpi agendo lungo la dorsale appenninica; Raggiunti questi obbiettivi, i
due Corpi si sarebbero riuniti e quindi avviarsi verso il meridione.
Pontifici: adunata di tutte le forze mobili a Spoleto
– Foligno; attuata questa, marciare il più celermente possibile verso
Macerata e quindi su Ancona; contemporaneamente le forze operanti nelle
Marche ripiegare lentamente, con movimenti di arresto temporaneo e raccogliersi
a Ancona, senza impegnare seri combattimenti con i Sardi. In questo contesto
prenderanno vita le due manovre principali che porteranno allo scontro di
Castelfidardo.
Nella
pianificazione Sarda vi è la volontà di intercettare le forze mobili Pontificie
ed ingaggiare battaglia al fine di distruggerle: tale compito era affidato al V
Corpo, nella accezioni che tali forze rimanessero in Umbria; pur vera e
considerata era anche l'ipotesi che le forze Pontificie si sarebbero ritirate
su Roma, preferendo una difesa del Lazio ad ogni altra iniziativa. Qualora tale
ipotesi si fosse verificata, non si
sarebbe ottenuto l'annientamento delle forze mobili Pontificie, ma si sarebbe
guadagnato ulteriore tempo per raggiungere il meridione.
Nella pianificazione Pontificia, invece, si prevedeva
in modo accurato l'ipotesi di evitare con ogni mezzo uno scontro in campo
aperto con le forze avversarie. Tutto doveva concorrere a raggiungere Ancona,
nell'accezione che la piazzaforte dorica, forte delle sue tre cinte di difesa,
sarebbe stata inespugnabile in tempi brevi. Fu subito scartata l'ipotesi di una
ritirata delle forze mobili nel Lazio, sia perché il Lazio era presidiato da
truppe francesi sia perché era ormai evidente che Garibaldi non avrebbe potuto raggiungere Roma senza
l'accordo del Governo di Torino.
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