La situazione nel settembre 1860
Il successo della spedizione dei Mille porta Garibaldi a Napoli, con
il prossimo obbiettivo Roma. E’ necessario fermarlo per garantire l’equilibrio
in Italia e garantire un residuo potere temporale ai Papi. I prodomi della
invasione delle Marche e dell’Umbria.
L'entrata
a Napoli di Garibaldi il 7 Settembre 1860 fece precipitare la situazione
politico-militare ed istituzionale in Italia, alterando gli equilibri esistenti
Partito da Quarto nel maggio precedente, alla testa di 1089 volontari, per
portare la Rivoluzione nel Regno delle Due Sicilie, con l'appoggio tacito ed
indiretto del Governo di Torino, Garibaldi, sbarcato a Marsala, aveva
conquistato la Sicilia nell'estate. Passato sul continente, non trovò validi
ostacoli alla sua azione e ai primi di settembre era padrone della situazione.
Re Francesco aveva lasciato Napoli e si era ritirato a Gaeta, con un forte
nerbo d'esercito. Per Cavour il problema essenziale era quello di portare le
conquiste garibaldine nell'alveo della volontà moderata, evitando che Garibaldi
prendesse iniziative ulteriori. La presenza a Napoli di Giuseppe Mazzini, di
numerosi repubblicani di Francia e d'Italia, degli elementi più accesi e decisi
del partito d'azione, la dichiarata volontà di Garibaldi di voler proseguire
per Roma, per abbattere il potere temporale dei Papi e dare Roma all'Italia,
determinava una situazione inquietante, che avrebbe certamente provocato
l'intervento o dell'Austria o della Francia, alterando i difficili equilibri
europei.
La situazione politica, quindi, in quella estate del 1860 era
quanto mai fluida e, anche sotto il profilo dell’equilibrio europeo, fonte di
pericoli; occorreva prendere iniziative concrete. Se a Napoli il partito dei
rivoluzionari, dei repubblicani, dei progressisti era fermamente intenzionato
ad agire, a Roma le cose non erano certamente
più tranquille. Pio IX mostrava di gradire sempre più l'influenza del
partito conservatore, chiamato in quel tempo, ultramontano, nonostante gli
sforzi del Cardinale Antonelli, esponente del partito moderato, di ricondurre tutto nell'alveo di un civile
equilibrio, attraverso gli accordi con le potenze amiche, soprattutto Austria e
Francia. Dopo la perdita delle Romane ,
il partito ultramontano aveva acquisito ulteriore influenza ed aveva imposto a
Pio IX la nomina di Monsignor Xavier De Merode.
Questi era sempre più convinto che le corti europee, soprattutto dopo il
Congresso di Parigi del 1856, andavano adottando principi e metodi che si
discostavano sempre più dalla alleanza trono-altare. Lo Stato Pontificio
doveva, quindi, in questa ottica, provvedere direttamente alla propria difesa e
cercare di fare affidamento sulle proprie forze e risorse. E' una linea
politica che si scontra con l'elemento moderato ed italiano del Quirinale
impersonificata dal Cardinale Antonelli, convinto assertore che contro gli
eventi che si stavano maturando in Italia era stolto opporsi con la forza. Gli
esponenti del partito ultramontano e
Mons. De Merode in particolare, non perdevano occasione per scagliarsi contro la rivoluzione e di
bandire, nel contempo, ogni elemento italiano, chiamato al tempo indigeno,
dalla corte e dal governo pontificio, elemento ritenuto infido, corrotto e
traditore. In questo fervore non poteva evidenziarsi la scarsa fiducia, se non
il malanimo, verso la Francia di Napoleone III. Non si aveva più nessuna
fiducia in Parigi ed a Roma si andò oltre le linee. L’ira contro Napoleone III
era divenuta così stranamente esagerata,
che le dame del Sacro Cuore, nel convento di
Santa Rufina, gli avevano dato il nome di " primogenito del
demonio" ed il Margotti lo aveva definito "l'uomo dalle tredici
coscienze", per giungere alla "Civiltà Cattolica", la rivista
dei gesuiti, che ad ogni numero non risparmiava i più ingiuriosi epiteti. In
questo clima dichiaratamente ostile alla Francia, in cui sia il Comandante in
Capo delle truppe francesi, gen. Goyon, sia l'Ambasciatore Gramont, mostravano
di non padroneggiare a sufficienza la situazione, l'ambasciatore austriaco
Hubner, recentemente nominato, lasciava credere a tutti che la guerra era
imminente. Insisteva,inoltre, nel dire che una vittoria dell'Austria,
sicuramente, sarebbe bastata a cancellare tutto quello che i Sardi e i loro amici
rivoluzionari avevano conquistato negli ultimi mesi, umiliando l'influenza
francese in Italia e dando una lezione al Regno di Sardegna dieci volte più
significativa di quella del 1848-1849. Queste parole concretizzavano il grande
desiderio e la grande speranza non solo di Pio IX ma di tutto il Partito
Ultramontano. Nonostante le dichiarate asserzioni di Napoleone che la Francia
non avrebbe mai abbandonato Roma, e la presenza stessa delle truppe francesi
stava a significarlo, Mons. De Merode ed il suo partito confidavano
nell'Austria e, subordinatamente, nell’Esercito Pontificio, a cui avevano
iniziato a dare ogni cura.
Del resto la nomina di De La Moricière a Comandante in Capo
dell'Esercito Pontificio era stato un
gesto estremamente significativo in chiave
antinapoleonica. Napoleone III, peraltro mal servito dalla sua diplomazia a
Roma, non aveva chiara la situazione che si era maturata: comprendeva solo che
il partito legittimista a lui ostile,
aveva una grande influenza su Pio IX, generando ulteriore confusione e
dubbi. Nei contrasti fra Napoleone III ed i suoi protetti, si inserisce
abilmente Cavour. Nessuno meglio del
Treitschke condensò, subito dopo gli avvenimenti, in poche parole l'opera
audace e spregiudicata del ministro
sardo:
"Cavour
concepì il disegno di annullare con un colpo improvviso l'esercito della
ristorazione di Lamoricière, poi di effettuare l'unione del Mezzogiorno e così
salvare coll'unità d'Italia, anche l'autorità della corona. Egli stesso
considerò più tardi questo ardito pensiero come il migliore titolo della sua
gloria: 'La monarchia era perduta se noi non eravamo presto al Volturno!'. Il
28 agosto Farini e Cialdini furono ricevuti dall'imperatore a Chambéry; essi
rappresentavano che l'esercito legittimista della Curia minacciava il suo trono
stesso; che Garibaldi voleva chiamare a sé Charras, l'antico avversario di
Napoleone; che la spedizione del Veneto diventava una necessità, appena
Garibaldi movesse sopra Roma. E allora che cosa
accadrebbe di ogni ordine civile, se la monarchia non istrappava il
pugnale dalle mani del partito d'azione? Così stretto e messo al muro Napoleone
non osò opporsi; ma il famoso “ faites, mais faites vite”, che gli fu posto in
bocca, non lo ha mai detto."
Napoleone III, quindi, non ha mai pronunciato tali parole,
che segnarono i tempi della Campagna nelle Marche e nell’Umbria, ma appare
chiaro che l'Imperatore si lasciò penetrare anche troppo dalla politica del
Cavour, che intuì di poter osare. Napoleone III non voleva l'unità d'Italia,
che significava una perdita di influenza nella penisola. Il suo atteggiamento
nel 1859 era apparso quanto mai chiaro.
Mirava a sostituire l'influenza austriaca con quella francese per controbattere
e di equilibrare quella inglese, in un contesto generale degli equilibri nel
Mediterraneo. Per questo era risoluto a non voler abbandonare Roma, che cadrà
in mani italiane solo quando lui cadrà a Sedan nel 1870. Quando le truppe Sarde
passeranno il confine pontificio, l'11 settembre 1860, Napoleone III,
estremamente turbato, richiamò il suo ambasciatore da Torino.
Nel contempo ordinò di rafforzare la
guarnigione francese a Roma. Questo ordine
fu interpretato in modo equivoco
dall'ambasciatore francese a Roma, Gramont, tanto che lo stesso Gramont
telegrafò, l'11 settembre, al conte de Courcy, vice console francese ad Ancona,
lasciando prevedere un intervento
francese.
Come vedremo copia di questo dispaccio fu inviata dal De Merode a De La Moricière che lo ricevette il 16
settembre, mentre questi era in marcia dall’Umbria alle Marche, via Colfiorito.
L’atteggiamento della Corte Pontificia e del Governo nei
confronti di Napoleone III era improntato, prima del settembre 1860, a
diffidenza e sospetto; dopo gli avvenimenti nelle Marche e nell’Umbria a
risentimento e ostilità. Roma e tutti i responsabili pontifici si attendevano
da Parigi un sostegno concreto contro i rivoluzionari e gli scomunicati sardi,
sull’esempio del 1849, quanto l’intervento francese determinò la fine della
Repubblica Romana e il ripristino del Potere Temprale dei Papi. La diplomazia
del Quirinale, però, non penetrò mai a fondo il pensiero di Napoleone III,
orientato a permettere azioni Sarde nell’Italia centrale, purché il Lazio e
Roma fossero salvaguardate. Di conseguenza, coloro che erano chiamati a
difendere in armi i confini dello Stato Pontificio, non ebbero mai la certezza
che i Francesi non si sarebbero mossi in loro aiuto per difendere le Marche e
l’Umbria. In realtà Napoleone III
sarebbe intervenuto solo se i Sardi avessero attaccato Roma ed il Patrimonio di
San Pietro, l'odierno Lazio;
e non si sarebbero mossi qualora le Marche e l'Umbria fossero state
invase. Napoleone III, da Chambéry, non rientrò a Parigi, ma si recò in Algeria,
dove si fermò fino al termine delle operazioni nell'Italia Centrale, nella
convinzione che in Africa sarebbe stato ben più lontano dalle pressioni e dalle
agitazione che sicuramente si sarebbero provocate stando a
Parigi. Tutto questo generò l’equivoco di fondo di Chambéry del 28
agosto, basato tutto sul tacito consenso di Napoleone III. I Pontifici agivano
nella speranza, che in qualcuno era certezza, dell’arrivo dell’Esercito
Francese. Occorre rilevare che il De la Moriciére, nella sua relazione al Pro
Ministro per le Armi, nega di aver creduto in questo soccorso, anche se
numerosi atti stanno a dimostrare il contrario. Così si esprime “Conchiudo
questo rapporto, già molto col rispondere una parola al rimprovero che mi è
stato fatto per aver pubblicato, sul cominciamento della guerra, alcuni
documenti che mi sembravano annunziare l’appoggio della Francia. Io non ho
nessuna difficoltà di concedere che nei primi giorni ho creduto a questo
appoggio, e quindi era naturalissimo il servirmi di quei documenti per
sostenere il coraggio delle truppe che io comandava. Ma errerebbe grandemente
chi volesse cercare la spiegazione del piano di guerra da me stabilito, nella
speranza del soccorso che pareva a noi promesso. Io mi trovava innanzi ad una
questione di dovere e di onore; e se io avessi voluto nelle mie risoluzioni tener
conto della gravità del pericolo che poteva attenderci, i miei antichi compagni
d’arme dell’Esercito Francese mi avrebbero rinnegato, ed ardisco anzi dire che
non mi avrebbero riconosciuto” Le
asserzioni del De la Moricière possono anche essere accolte, ma sicuramente il
suo comportamento ebbe gravi ripercussioni sul piano operativo, sotto il
profilo informativo.
Tutto l’ambiente legittimista si risentì contro Napoleone III e il suo
atteggiamento di sostanziale avallo alla politica cavourriana.
Questo gli attirò
l'accusa di tradimento da parte del partito cattolico e l'odio viscerale di
tutto il partito ultramontano, che vide in questo atteggiamento la conferma di
quanto di negativo si pensasse a Roma riguardo all'Imperatore. Il Comte de
Colleville, nella sua opera dal titolo estremamente significativo, “ Un
crime du Second Empire” non ha difficoltà a scrivere che la maggior parte
di coloro che erano accorsi sotto le bandiere pontificie speravano nell’aiuto
francese. “Gli ufficiali, conformemente alla capitolazione, conservavano le
loro armi e i loro cavalli, e i soldati deponevano i loro fucili in un immenso
ammasso. Quando i Franco-Belgi gettarono con rabbia sul mucchio le loro armi
con le baionette storte e insanguinate, ci fu un momento di emozione tragica
che non fu possibile dissimulare. “L’indomani, 20 settembre – dice Alfred Nalbert nei suoi appunti sulla
battaglia – ci fu permesso di passeggiare nella città. Sentì il generale
Cialdini dire al conte di Becdeliévre.
- Comandante, voi dovete essere fiero di comandare gente tanto in gamba.
– Il Comandante gli rispose: - E’ vero, generale, ma mi farete un favore
se vorreste scrivermi ciò che mi state dicendo. E’ inutile – rispose il
generale – tutta l’Europa lo saprà”.
Cialdini desiderava vederci da vicino e, da parte nostra, la curiosità
non era minore; così lo attorniammo nella piazza e si instaurò una
conversazione tra lui ed i nostri ufficiali, guide e Franco-Belgi; alcuni lo
interpellarono ed ottennero delle rivelazioni che ci aprirono all’improvviso
gli occhi riguardo al governo francese. Cialdini, infatti, confessava
cinicamente che il governo di Torino aveva ogni autorizzazione ad agire da
parte dello stesso Napoleone III e che, di conseguenza, non doveva tener conto
del dispaccio dell’ambasciatore francese a Roma. – Il vostro Imperatore è con
noi – diceva – noi eravamo sicuri che voi non sareste stati soccorsi. La
furberia dell’uomo di Dicembre era ben conosciuta da tutti quegli esponenti
monarchici francesi, ma, veramente, questa volta essa superava ogni
immaginazione ed essi ne restarono confusi.”
Ma se da parte francese il non intervento francese poteva
anche essere ipotizzato, tutti gli eventi del settembre 1860 da parte
pontificia furono condizionati dalla convinzione che l'Austria si sarebbe
sicuramente mossa, e con una guerra decisiva, si sarebbe ripresa non solo la
Lombardia ma avrebbe ripristinato il suo predominio e l'autorità dello Stato
della Chiesa sulle Romagne e restituito i Lorena a Firenze. A Vienna, peraltro,
si era iniziato a pensare che in Italia la migliore politica era quella della
difensiva. Non era possibile tenere tutto l'Impero unito, lanciando guerre successive. L'Ungheria era il vero problema e
tutte le forze dovevano essere concentrate
affinché i magiari rimanessero nell'Impero, altrimenti tutto sarebbe
crollato in una sorta di effetto domino. Vienna aveva timore che rivolte ed
insurrezioni scoppiassero in Ungheria, dando inizio al processo di sfaldamento
dell'Impero. Non ci si nascondeva che Kossuth era in Italia e con lui il Thurr
e il Klapka e soprattutto non si ignorava i loro accordi e le loro intese con
Cavour, la formazione della legione ungherese,
e i progetti di portare la rivoluzione a Budapest. In quella estate del 1860,
non per altro, dopo quanto stava successo nel meridione d’Italia, Vienna
sottolineava che i tre principali indipendisti ungheresi, fraterni amici sia di
Garibaldi che di Mazzini, erano a Napoli. Orientata al non intervento, in
considerazione anche dei difficili rapporti con lo Zar, preoccupata dalla
situazione interna, soprattutto ungherese,
l'Austria, aveva molte riserve mentali, ed alla fine, non si mosse.
Lo Stato Pontificio doveva fare, in ultima analisi,
assegnamento solo sulle proprie forze, secondo quanto sosteneva il De Merode,
oppure seguire gli avvenimenti, senza opporvisi, cercando di sfruttare le
occasioni che si presentavano, in un abile politica di contenimento, secondo
quanto sosteneva il Cardinale Antonelli
e che aveva dato i suoi frutti dieci
anni prima, nel tremendo biennio 1848-1849.
Ottenuto il tacito accordo del non intervento francese, Cavour ordinò di
provocare una sollevazione antipapale ad Urbino e nel Montefeltro nel nord
delle Marche, mentre il Masi doveva sconfinare dalla Toscana al fine di ottenere un pretesto per invadere
le Marche e l'Umbria. Tale insurrezione
aveva anche lo scopo di giustificare, agli occhi degli Italiani,
l'intervento nel sud, affinché non fosse palese che tutta l'operazione aveva lo
scopo di assorbire, nella scena politica italiana, il partito d'azione e
Garibaldi, inserendolo con la punta delle baionette nell’alveo moderato. I rapporti tra Cavour e Garibaldi non furono
mai sereni, spesso difficili, in qualche frangente pessimi. Durante tutta la
spedizione dei Mille, Cavour era impaziente
di prendere iniziative ed azioni contro Garibaldi e contro la sua politica
progressista, non facendone mistero con i suoi diretti collaboratori e con i
suoi amici. Del resto in quei giorni Garibaldi , con frasi anche banali,
additava Cavour all'odio pubblico.
Esempi significativi sono il proclama ai palermitani, il colloquio di Caserta
con Silvio Spaventa,
il non voler accettare il plebiscito, la grande intesa con Bertani e con
Crispi, dichiaratamente anticavourriani,. Esempi chiari, sottolineati
dall’ordine dato a settembre da Garibaldi al colonnello Tripoti a Teramo: "Ricevete i piemontesi a fucilate".
L'insurrezione proposta nel nord delle Marche, quindi, serve anche a
giustificare l'azione verso Garibaldi. Cavour aveva anche valutato che Re Francesco
era abbastanza forte nel nord del suo Reame, ovvero a Napoli e negli
Abruzzi. E che cominciava a manifestarsi
una reazione a suo favore da parte dei napoletani, con atteggiamenti non certo
di abbandono in massa come i siciliani. I 40.000 soldati borbonici schierati
sul Volturno erano una reale minaccia, che una calata da nord delle regie truppe sarde, avrebbe di molto
annullato. Cavour aveva le idee molto chiare e sapeva ben tenere in mano il
bandolo della matassa degli equilibri internazionali e nazionali in
quell’estate del 1860, ed il piano che via
via stava elaborando, alla fine di agosto, presentava le condizioni
ottimali per essere attuato. Cavour, ai primi di settembre, scriveva al colonnello
Efisio Cugia, capo di stato maggiore del IV Corpo d'Armata, quello destinato ad
invadere le Marche, la seguente lettera
, che rileva la sua impazienza, le sue ansie e il suo animo verso Garibaldi:
"Carissimo amico,ti ringrazio delle buone notizie, che mi
trasmetti col tuo foglio del 31 andante. Se le Marche sono in condizione di
fare un moto serio, lo aiuteremo, e la faremo finita con Lamoricière. Non
possiamo aspettare Garibaldi alla Cattolica; ma lo incontreremo al confine del
Regno di Napoli; credo che potremo lottare con lui. Il moto delle truppe verso
il confine è cominciato. Tu sei all'avanguardia, ma ne consolo ché così avrai
campo di farti onore e di passare presto dal comando di una brigata a quella di
una divisione. Si cerca di tenere coperto il nostro progetto, col dire che gli
apparecchi si fanno per Napoli. Addio, mi scriverai il giorno in cui sarai
entrato in Ancona Tuo affezionatissimo C. Cavour.
Il 7 Settembre 1'azione di quelle che successivamente saranno
chiamate le forze insurrezionali, ha inizio, coordinata dal Comitato di Rimini.
Insorgono oltre Pergola, Santa Agata Feltria, Fossombrone, Pesaro e Fano,
avendo successo ovunque meno che a Pesaro e Fano ove la presenza di guarnigioni
pontificie bloccò sul nascere ogni azione.
La notizia delle sollevazioni pro-nazionali nell'Urbinate provoca
1'immediata reazione pontificia: già il 9 Settembre 1860 due colonne mobili,
della Brigata De Courten, muovono da Macerata verso il nord delle
Marche, con il dichiarato scopo di soffocare ogni tentativo di ribellione al
potere dei Papi. Questa iniziativa militare avrà delle ripercussioni nel corso
delle operazioni iniziali della campagna delle Marche e dell'Umbria. Mentre le Marche settentrionali iniziano ad
insorgere, il Cavour dà l’avvio al suo piano: i giornali di Torino annunziano a
grossi caratteri la notizia che nelle Marche è in corso una insurrezione contro
il papato e questa notizia viene diffusa, per telegrafo, in tutta Europa. Nel
contempo prende l’avvio l'iniziativa diplomatica sarda con l’invio di un ultimatum politico-diplomatico al Governo
Pontificio. Il Cavour ordina al conte Della Minerva, che era stato l'ultimo
ambasciatore a Roma, di partire per Roma. Della Minerva, partito il 7 settembre
da Genova, sbarcò a Civitavecchia con un giorno di ritardo, il 9 anziché l'8
settembre, a causa di una burrasca nell'alto Tirreno. Il delegato pontificio di
Civitavecchia, la massima autorità pontificia nel porto laziale, non gli
permette di proseguire, benché il Della Minerva affermasse di essere latore di
una lettera pressante del Primo Ministro Sardo, Cavour per il Cardinale
Antonelli, capo della Segretaria di Stato. Il delegato pontificio ritira lui la
lettera e la fece recapitare al Segretario di Stato a Roma con la massima
urgenza possibile.
L’ ultimatum,
concepito proprio per non essere
accettato, prevedeva che se le forze nazionali operanti nelle Marche venivano
affrontate e disperse dall'Esercito Pontificio, questo avrebbe provocato
1'intervento dell'Esercito Sardo,
intervento resosi necessario per tutelare gli interessi nazionali e le
aspirazioni all'italianità dei marchigiani. Era un ultimatum non corretto nella
forma, come si può notare,
soprattutto in quei passi in cui
chiedeva lo scioglimento dell'Esercito Pontificio. Questo fu fatto notare anche
dalla stampa e dai partiti liberali inglesi, notoriamente vicini alle posizioni
del Cavour. Ma Cavour aveva fretta ed agì di conseguenza. In attesa della
risposta pontificia, che Cavour si
aspettava per il 9, al più tardi, per il 10 settembre, il 9 settembre comunicò
a tutti i rappresentanti diplomatici del Regno di Sardegna presso le Corti
d'Europa, che il Governo Pontificio si era rifiutato di soddisfare " le giuste richieste del suo sovrano e che
perciò era costretto a far ricorso ad una azione di guerra" Nel
contempo aveva ordinato al generale Fanti
di avviare i preliminari per passare la frontiera pontificia con
l’Armata d’invasione. La risposta pontificia,
l'11 Settembre 1860, non si fece attendere: 1'ultimatum è respinto con ferme
parole, non prive di argomentazioni valide e con una certa dignità.
Ma oramai la parola era passata alle armi, essendosi già
messa in moto la macchina dell'invasione. Alle ore 12 del 10 Settembre 1860 il
capitano di Stato Maggiore dell'Esercito Sardo, Farini, si presentò al Quartier
Generale dell'Esercito Pontificio a Spoleto, recante un ultimatum militare, che
fu presentato al Generale De La Moricière, Comandante in Capo dell'Armata
Papale. Questo ultimatum era a firma del Generale Fanti, posto dal Cavour a
capo delle forze d'invasione sarde,
ove "si dichiarava che, per ordine
di Vittorio Emanuele , Re di Sardegna, il territorio pontificio sarebbe stato
subito invaso dalle truppe sarde, se da parte dell'Esercito Pontificio vi fosse
stata una qualsiasi repressione di manifestazioni di sentimenti popolari, e se
manifestazioni del genere fossero assecondate , ritirando immediatamente
l'Esercito dai luoghi dove esse avvenivano"
ovvero la richiesta
prevedeva la richiesta di sgombero delle Marche e dell'Umbria da parte
dell'Esercito Pontificio. De La Moricière nella sua relazione così scrive:
"Fui indignato
dalla lettera consegnatami e, poiché il capitano Farini, al quale avevo fatta
cortese accoglienza, mi disse di essere a conoscenza del contenuto della
lettera di cui era latore, gli feci osservare che mi si proponeva di evacuare
senza conflitto provincie di cui mi era stata affidata la difesa: che per me e
il mio esercito ciò sarebbe stata una vergogna e un disonore; che il Re del
Piemonte ed il suo generale avrebbero potuto fare a meno di inviarmi tale
diffida , dichiarandoci più lealmente la
guerra; infine , che, nonostante la superiorità numerica del Piemonte, noi non
avremmo dimenticato che per difendere l'onore oltraggiato del governo di cui
sono al servizio, ufficiali e soldati non devono tener conto né del numero dei
nemici, né della salvezza della loro vita.”
Anche questo ultimatum
venne naturalmente respinto determinando l'inizio delle ostilità, a decorrere
dalla mezzanotte del 10 Settembre 1860. Alle truppe sarde furono
indirizzati ordini del giorno da parte
del Re Vittorio Emanuele, da parte dei
generali Fanti, Morozzo della Rocca e Cialdini. Vittorio Emanuele nel suo ordine del giorno sottolinea che le
truppe entrano nelle Marche e nell'Umbria " per liberare le infelici provincie
dell'Italia dalla presenza di
avventurieri stranieri" Un
proclama che rivela gli accordi con la Francia e la parte del progetto
cavourriano di intervento, ove si nasconde abilmente l'obbiettivo di giungere
al Sud, a neutralizzare Garibaldi. Né il Governo né la diplomazia pontificia riescono a cogliere questo
messaggio, e per tutta la durata della campagna sperano in un intervento
francese ed austriaco. Ci si attarda sulle recriminazioni ed invettive come
quella del vescovo di Orlèans, che commentando l'invasione, così scrive:
"Così, senza una
dichiarazione di guerra . senza nessuna delle decorose forme convenzionali che
sono l'ultima salvaguardia dell'onore fra i popoli civili, come se vivessimo
ancora nella più oscura barbarie, masse armate invasero gli stati
pontifici"
Ma lo Stato Pontificio fu
abbandonato da tutte le corti d'Europa. Le cattoliche Austria e Spagna, la
scismatica Russia e la Prussia protestante, furono unanimi nel protestare e
ritirare i loro ambasciatori accreditati
presso il Regno di Sardegna, come del resto fece la Francia. Solo la Gran
Bretagna lasciò il suo ambasciatore a
Torino. Questa protesta, però, rimase solo tale e non fu seguita da alcun atto
concreto. Nessuno in Europa voleva salvare gli ultramontani di Roma.
I proclami dei comandanti in capo delle truppe furono più
rudi e militareschi, del resto indirizzati a truppe in procinto di entrare in
azione. Fanti sottolineava che i soldati sardi
avevano dovuto abbandonare le proprie case ed il loro paese per
combattere quelli che venivano indicati
come " uomini senza patria né tetto, che avevano piantato sul suolo dell'Umbria la falsa bandiera di una
assurda religione.”
Cialdini, dimenticando che nel 1848 aveva rivestito il grado di colonnello
nell'Esercito Pontificio e sotto le sue bandiere aveva combattuto nel Veneto e
vi era stato ferito, dal Quartier Generale di Rimini, l'11 settembre invia
questo proclama:
"Soldati
del IV Corpo, vi conduco contro una masnada di briachi stranieri, che sete
d'oro e vaghezza di saccheggio trasse nei nostri paesi. Combattete, disperdete
inesorabilmente quei compri sicari, e per mano vostra sentano l'ira di un
popolo, che vuole la sua nazionalità e indipendenza. Soldati! l'inulta Perugia
domanda vendetta e, benché tarda,
l'avrà. Il generale comandante il IV Corpo d’Armata, Enrico Cialdini"
All’alba dell’11 settembre le truppe Sarde passano il
confine, dando inizio alle operazioni di invasione su due Corpi d’Armata: il
IV, agli ordini di Cialdini nelle Marche, lungo la litoranea adriatica; il V,
al comando del gen. Morozzo della Rocca, nell’Umbria. Una divisione, la 13a,
doveva percorrere la dorsale appenninica, svolgendo azione di raccordo tra i
due Corpi d’Armata. Ogni azione, ogni gesto da parte Sarda è indirizzato ad
agganciare in campo aperto le forze mobili pontificie e disperderle; da parte
pontificia tutto è indirizzato a resistere possibilmente in qualche
piazzaforte, in attesa dei già annunciati aiuti delle Potenze amiche,
sopratutto l’Austria.
Si delineano così le
volontà delle parti, che si esplicano in una fase concettuale, teorica per la
focalizzazione degli obbiettivi, ed una fase esecutiva, ovvero la realizzazione
di quelle azioni necessarie per la realizzazione ed il conseguimento dei
medesimi. Nessuna delle due parti aveva progettato la battaglia che si accese
il 18 settembre nella piana del Musone: una la ricercava, l’altra la voleva
assolutamente evitare. Pertanto la battaglia di Castelfidardo fu una battaglia
d’incontro, combattuta al seguito ed al susseguirsi degli eventi.