venerdì 19 maggio 2017
Edizione 2003 Nota VIII Parte I
massimo coltrinari
(centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
INCONTRO TRA PERSONA E CIALDINI 17 SETTEMBRE 1860
Pellion di Persano ritenne, al suo arrivo a
Senigallia, di dover sbarcare a terra, prendere una carrozza e cercare di
abboccarsi con Cialdini. Infatti lo raggiunse al suo Quartier Generale a
Castelfidardo. Durante l’incontro, dopo una analisi della situazione, Cialdini
ordina alla flotta di effettuare, l’indomani 18 settembre 1860, un
bombardamento su Ancona e minacciare sbarchi. Questo al fine di non fare uscire
dalla piazzaforte la guarnigione pontificia ed evitare che porti aiuto alle
truppe del De La Moricière. E’ una manovra indiretta per proteggere il fronte
Nord dello schieramento sardo. Stabilito questo, il Persano ritorna a
Senigallia e si predispone per l’azione. Nel suo Diario così descrisse
quell’incontro:
"15
settembre 1860 – Al far del giorno si avvista Rimini.
Un trabaccolo
papalino ci dà notizie le nostre truppe si trovano già a Senigallia; notizia
che ci viene confermata da altri ed altri, successivamente ed accuratamente
interrogati.
-
Retrocedo
quindi a tutta forza di macchine per quella rada, nella quale mi ancoro, colla
divisione, alle 10 e mezza antimeridiane; e lasciato senza più il comando al
Vittorio Emanuele, a cui spetta per anzianità di grado del suo comandante, mi
reco tosto a terra, facendo seguire dal mio aiutante di bandiera, in cerca del
Generale Cialdini, col quale devo abboccarmi. Vengo a risapere ch’egli aveva
lasciata Senigallia sin dal 15; né già l’aveva trattenuto la stanchezza somma
de’ suoi soldati affranti da marce precipitate, standogli anzi tutto a cuore di
giungere in tempo a Castelfidardo affine di precludere la strada al La
Morcière, che da Macerata veloce volgeva per Ancona.
-
Castelfidardo
è la chiave di tutte le vie che da quelle parti conducono a quella città forte,
ed il Cialdini non era uomo da lasciarsela sfuggire.
Avuto un veicolo qualunque, per cura di
certo signor Conte Gherardi, padre o zio che fosse di un nostro ufficiale di
marina, mi vi getto entro di botto col mio aiutante di bandiera, e via a
precipizio sulle tracce del generale Cialdini, che però non possono raggiungere
se non alla sua metà, cioè a Castelfidardo, ove era arrivato da pochi momenti.
Abboccatomi
con esso lui all’istante, egli con brevi parole mi spiga la sua posizione di
guerra, che mi riempie d’ammirazione, dacché, pur pigliandola a furia, a tutto
aveva provveduto, non trascurando persino gli stratagemmi di guerra.
Io invito
chi si contenta di leggermi a voler prendere conoscenza delle mosse eseguite
dal generale Cialdini in quella marcia accelerata, che troverà descritta nella
relazione ufficiale di quella campagna di guerra nell’Umbria e nelle Marche;
vedrà con quant’arte militare, con quale audacia, con che fermo volere e con
quale antiveggenza quel capitano, veramente insigne, seppe mandarla ad effetto
e farsi così sicuro della vittoria.
Indi
m’invita a retrocedere senz0altro, per non mettere ritardo a fare coi legni che
comando una dimostrazione contro la piazza d’Ancona, all’interno d’impedir
sortite a quella guarnigione, o d’obbligarla a rientrare, ove ne avesse
operate; ed intanto che si danno a cercarmi cavalli freschi per condurmi
indietro, mi trattiene a prender parte alla cena già preparata per lui e pel
suo seguito: così ho il bene di conoscere il tenente – colonnello cavaliere
Piola, suo capo di stato maggiore, ufficiale distinto, e a lui molto accetto; ed
i suoi tre aiutanti di campo – il marchese Mosti, ferrarese, il conte
Serristori, toscano, ed il conte Borromeo, lombardo - , tutti e tre ricchi
signori che, devoti alla causa italiana, non che sentir la privazione delle
agiatezze cui sono abituati, vanno lieti delle fatiche che incontrano, e più,
di offrir la vita alla patria.
Fatto
avvertito che il legno è in pronto, m’accomiato dal Cialdini con una buona
stretta di mano, avendo da tempo contratta con lui dimestichezza per opera
principalmente di Massimo D'Azeglio; e quella strada, che avevo fatta a
precipizio, rifaccio a rompicollo, sferzando e risferzando quei poveri cavalli,
che pur correvano di carriera; ma non ci era via di mezzo: bisognava giungere
ad Ancona colla divisione il più presto possibile, e la circostanza non
ammetteva il pensiero che si potesse rimanere a mezzo cammino col biroccio
fracassato e la testa rotta"[1]
[1] Carlo Pellion di Persano,
“Diario privato politico – militare dell’ammiraglio C. di Persano nella campagna
navale degli anni 1860-61”, Firenze, Civelli, 1869
sabato 13 maggio 2017
Edizione 2003. Nota VII Parte I
massimo coltrinari
(centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
La
situazione alla sera del 17 settembre
La
sera scese rapidamente e, come dice il Vigevano, "le colline di Castelfidardo, il Monte Conero ed il mare erano
completamente avviluppati dall’oscurità ed una solenne calma si distendeva su i
due eserciti che pur erano a così stretto contatto"[1]
Questa
calma è facilmente spiegabile. Le truppe sia sarde che pontificie erano reduci
da tre giorni di marche pesantissime e non era il caso di prendere in
considerazione ipotesi di azioni notturne, anche se a breve raggio, sia per la
stanchezza che per la scarsa dimestichezza dei luoghi[2]
Le truppe sarde, quindi, erano schierate secondo gli
intendimenti di Cialdini: sia verso Loreto ( Sud ) che verso Ancona ( Nord )
per fronteggiare ogni possibile attacco dei pontifici. Il fronte verso sud si
rivelava più robusto di quello verso nord, che era più che altro imbastito. Una
analisi di detto schieramento porta a rilevare che era stato approntato un
dispositivo così articolato:
-
un nucleo centrale di manovra, della consistenza di 8
Battaglioni;
-
ogni linea doveva organizzarsi in nuclei difensivi e linee avanzate che erano dotate anche di posti
di osservazione e vedette. La consistenza di detti nuclei, che erano per il
fronte Sud ad Osimo, San Sabino, Castelfidardo, spianata di casa Camilletti,
Crocette, era di 14 Battaglioni, 10 squadroni, 24 pezzi. Per quello verso Nord,
posto al quadrivio di San Biagio, Abbadia, San Rocchetto, era di 13
Battaglioni, 2 squadroni e 16 pezzi.
Le linee avanzate erano, verso Sud, quelle di
Rostichetto, del ponte di Loreto, del ponte del Molino, di Poggio Montoro;
quelle verso Nord erano attrezzate al ponte Ranocchia ed ai porti della piana
dell’Aspio.
Secondo il Comando Sardo tale dispositivo permetteva
di attuare una capillare vigilanza nel momento in cui i pontifici avessero
preso l’iniziativa; sarebbero stati prima trattenuti, poi logorati con
atteggiamenti di difesa attiva ( per mezzo dei nuclei difensivi ) e poi
sopraffatti con l’azione determinante del nucleo di manovra.
Gli intendimenti del Comando Sardo erano quanto mai
lodevoli. Ma questo schieramento presentava una grave lacuna dal punto di vista
tattico. Era stato completamente disatteso il principio dei vincoli organici. I
vari reparti che formavano lo schieramento sia verso sud che verso nord erano
unità diverse. Il Comandante della 4° Divisione, Generale Villamarina, aveva
nel suo settore, in prima linea reparti della 7° Divisione e, i seconda linea,
quelli della 7° Divisione, Generale Leotardi, nel suo settore aveva in prima
linea truppe della 4° Divisione e le sue nel settore, come detto, di
Villamarina. Questo frammischiamento poteva essere fatale ai Sardi se la battaglia
avesse richiesto una energica azione di comando.
Un’altra
carenza riscontrabile in questo dispositivo fu quella che il Comando Sardo non
ordinò ricognizioni o esplorazioni nonostante la numerosa cavalleria
disponibile. Le notizie che erano giunte al Cialdini, per tutta la giornata del
17 settembre, erano frammentarie e
spesso non verificate: il dispositivo risente di questa carenza di
informazioni.
Questo
fece sì che il Cialdini fosse convinto che un attacco potesse venire, con le
maggiori probabilità, lungo la strada posta, sull’asse ponti di Loreto,
Campanari, Crocette. Infatti in questo settore il dispositivo era veramente
robusto.
Questo
dispositivo pari a 27 Battaglioni, 12 squadroni e 40 pezzi di Artiglieria,
permetteva al Gen. Galdini di “Vigilare, trattenere, e logorare il nemico coi
nuclei difensivi, e di batterlo coll’azione risolutiva del nucleo di manovra”.
Si
erano prese le opportune misure per coordinare l'azione di terra con quella in
mare. La Squadra sarda doveva assolutamente, l'indomani 18 settembre,
presentarsi davanti Ancona e minacciare sbarchi per indurre la guarnigione
pontificia a non uscire dalla piazzaforte e correre in aiuto delle forze mobili
presenti a Loreto. Ma quello che più preoccupava Cialdini era le insufficienti informazioni
sia sul terreno che sulle intenzioni del nemico, cosa che, come abbiamo visto
fortemente influenzava il dispositivo predisposto.
venerdì 5 maggio 2017
Edizione 2003. Nota II Parte II
La
ricognizione notturna sul Musone: notte del 17 settembre sul 18 settembre
Il Cialdini dispose, di conseguenza, la
sera una ricognizione "in
loco", ovvero lungo il Musone, la cui esecuzione fu affidata al capo di stato Maggiore del IV
Corpo, ten. col. Piola Caselli.
I risultati furono semplicemente catastrofici e fu all'origine della sconfitta dei sardi il 18 settembre 1860
Edizione 2003 Nota VI Parte III
Massimo Coltrinari
(centrostuducesvam@istitutonastroazzurro.org)
La Ricognizione sul fiume Musone del 17 settembre 1860
Piola Caselli fu accompagnato in tale ricognizione dal
ten. Orero, che nelle sue memorie così descriveva quelle ore:
" Tuttavia,
la sera del 17 essendogli (al Cialdini ) nato il dubbio per nuove informazioni
attinte a Castelfidardo ove erasi trasferito il quartiere generale, che le
difficoltà di guado e di praticabilità delle strade non esistessero o no
fossero insuperabili come da prima era stato supposto, affidò al suo Capo di
Stato Maggiore ( ten. col. Piola Caselli ) l’incarico di mettere tosto le cose
in chiaro col mezzo di una ricognizione.
Il ten.
col. Piola Caselli ai di cui ordini furono posti due battaglioni bersaglieri
(XI e XII), prese con sé il ten. Orero e due carabinieri a cavallo con le
lanterne e torce a vento, e per la strada che da Castelfidardo va a Loreto,
scese al Musone, dove trovammo i due battaglioni che stavano preparandosi alla
partenza. Ci ponemmo in marcia poco prima di mezzanotte seguendo dapprima la
sponda sinistra del Vallato e quindi quella del Musone donde doveva cominciare
la ricognizione.
Il ten.
col. Piola Caselli procedeva in testa seguito dal ten. Orero e dai carabinieri.
La notte era limpida, ma il terreno boschivo. Il passo alquanto celere dei
nostri cavalli ci allontanò ben presto dalla testa dei due battaglioni che in
fila lunga e sottile ci seguivano per il sentiero da noi battuto. Eravamo
ancora lontani dal punto ove ad un chilometro e mezzo dalla foce il Musone e
l’Aspio si uniscono, quando non sentendo più alcun rumore dietro di noi, ci
arrestammo ad attendere la colonna. Il silenzio continuava. Ci era in verità
parso di udire qualche cosa, come di colonna in marcia, ma uno dei carabinieri,
dall’orecchio fino e che era l’uomo fidato del Capo di Stato Maggiore, ci disse
che il leggero fruscio che sentivamo di gente che si muoveva tra le piante
proveniva dall’altra riva. Allora, senza più preoccuparci della colonna che
avrebbe dovuto seguirci, continuammo da soli la ricognizione allontanandoci e
avvicinandoci al fiume come ci conducevano le tracce di sentiero che
incontravamo nella nostra direzione. Con pali malamente fabbricati sul sito
scandagliammo tre o quattro volte le acque. Questo scandaglio eseguito nella
quasi oscurità non fece che confermare nel Tenente Colonnello Piola
l’impressione che le fantastiche ombre notturne avevano esercitato sopra i suoi
occhi ed anche sui miei; trattavasi, cioè, di un fiume profondo all’incirca due
metri a rive talmente alte e difficili da escludere la possibilità del
passaggio di una colonna senza il getto di un ponte e senza un lungo lavoro di
sterro.
Mantenendoci
in questa impressione giungemmo al confine dell’Aspio. Anche questo corso
d’acqua che dovevamo attraversare per proseguire la nostra ricognizione sino al
mare, ci parve profondo e a rive scoscese e forse l’avremmo dichiarato come il
Musone, inguadabile, se l’accorto e robusto carabiniere, quello dell’orecchio fino,
il quale non era come noi affranto dalla fatica e dal sonno, non si fosse fatto
avanti col suo cavallo ed ad un tratto, discese la riva e spintosi nell’acqua,
non fosse risalito, sano e salvo sull’altra sponda. Il buon esempio fu, un po’
per stimolo di sprone, ma più per istinto, seguito dai nostri cavalli. Da
questo momento, forse in causa del rigurgito provocato dall’alta marea, il
Musone ci parve un abbraccio di mare solo transitabile su barche"[1].
La ricognizione, nel complesso, fu eseguita male. Innanzitutto
fu fatta di notte e questo non poteva aiutare a fare un buon lavoro. Piola
Caselli e Orero, forse, sopraffatti anche dalla stanchezza, non furono
meticolosi nel ricercare gli elementi di decisione. Sta di fatto che
confermarono al Cialdini che il Musone era, a valle, inguadabile.
Questa conferma della primitiva valutazione indusse il
Comando Sardo a non prendere le adeguate contromisure e a correre, quindi, un
grosso pericolo: in pratica esso lasciava libera una via di accesso ad Ancona
alle truppe pontificie raccolte a Loreto. Se il comando pontificio sicuramente
meglio informato, avesse scelto di passare in quel punto il Musone e di
proseguire speditamente verso Ancona, senza impegnarsi in combattimenti, forse
non ci sarebbe stata alcuna battaglia di Castelfidardo. De La Moricière avrebbe
potuto raggiungere Ancona indisturbato o al massimo avrebbe impegnato una
aliquota minima di forze. I tempi per attuare tutto questo c’erano tutti.
La
ricognizione ebbe termine all'alba del 18 settembre, e Piola Caselli ebbe modo
di riferire a Cialdini dei risultati alle 8,30 del 18 settembre, quando
Cialdini rientrò dalla ispezione del fianco sinistro del suo schieramento, cioè
dalle Crocette. Anche per questa ragione Cialdini si trovava ad Osimo nel
momento in cui la battaglia raggiunse il suo culmine alle 11 circa del 18
settembre, nella regione opposta a Colle Oro.
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