L'Ultima difesa pontificia di Ancona . Gli avvenimenti 7 -29 settembre 1860

Investimento e Presa di Ancona

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20 settembre - 3 ottbre 1860

L'Ultima difesa pontificia di Ancona 1860

L'Ultima difesa pontificia di Ancona 1860
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Onore ai Caduti

Onore ai Caduti
Sebastopoli. Vallata di Baraclava. Dopo la cerimonia a ricordo dei soldati sardi caduti nella Guerra di Crimea 1854-1855. Vedi spot in data 22 gennaio 2013

Il combattimento di Loreto detto di Castelfidardo 18 settembre 1860

Il combattimento di Loreto detto di Castelfidardo 18 settembre 1860
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La sintesi del 1860

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Il combattimento di Loreto, detto di Castelfidardo 18 settembre 1860

Il Volume di Massimo Coltrinari, Il Combattimento di Loreto detto di Castelfidardo, 18 settembre 1860, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2009, pagine 332, euro 21, ISBN 978-88-6134-379-5, è disponibile in
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venerdì 4 gennaio 2019

1860. L'innesco degli avvenimenti


Garibaldi a Napoli: 

prossimo obbiettivo Roma

 Massimo Coltrinari

L'entrata a Napoli di Garibaldi il 7 Settembre 1860 fece precipitare la situazione. Partito da Quarto nel maggio precedente, alla testa di 1089 volontari, per portare la Rivoluzione nel Regno delle Due Sicilie, con l'appoggio tacito ed indiretto del Governo di Torino, Garibaldi, sbarcato a Marsala, aveva conquistato la Sicilia nell'estate. Passato sul continente, non trovò validi ostacoli alla sua azione e ai primi di settembre era padrone della situazione. Re Francesco aveva lasciato Napoli e si era ritirato a Gaeta, con un forte nerbo d'esercito. Per Cavour il problema essenziale era quello di portare le conquiste garibaldine nell'alveo della volontà moderata, evitando che Garibaldi prendesse iniziative ulteriori. La presenza a Napoli di Giuseppe Mazzini, di numerosi repubblicani di Francia e d'Italia, degli elementi più accesi e decisi del partito d'azione, la dichiarata volontà di Garibaldi di voler proseguire per Roma, per abbattere il potere temporale dei Papi e dare Roma all'Italia, determinava una situazione inquietante, che avrebbero certamente provocato l'intervento o dell'Austria o della Francia, alterando i difficili equilibri europei.

La situazione politica, quindi , in quella estate del 1860 era pericolosa ed occorreva prendere iniziative concrete.
Se a Napoli il partito dei rivoluzionari, dei repubblicani, dei progressisti era fermamente intenzionato ad agire, a Roma le cose non erano più tranquille. Pio IX era ormai sotto l'influenza  del partito conservatore, chiamato in quel tempo, ultramontano, nonostante gli sforzi del Cardinale Antonelli, esponente del partito moderato,  di ricondurre tutto nell'alveo di un civile equilibrio, attraverso gli accordi con le potenze amiche, soprattutto Austria e Francia. Dopo la perdita delle Romagne, il partito ultramontano aveva acquisito ulteriore influenza ed aveva imposto a Pio IX la nomina di Monsignor Xavier De Merode[1]. Questi era sempre più convinto che le corti europee, soprattutto dopo il Congresso di Parigi del 1856, andavano adottando principi e metodi che si discostavano sempre più dalla alleanza trono-altare. Lo Stato Pontificio doveva, quindi, in questa ottica, pensare direttamente a se stesso. E' una linea politica che si scontra con l'elemento moderato ed italiano del Quirinale[2] impersonificata dal Cardinale Antonelli., convinto assertore che contro gli eventi che si stavano maturando in Italia era stolto opporsi con la forza.
Gli esponenti del  partito ultramontano, e De Merode in particolare, non perdevano occasione  per scagliarsi contro la rivoluzione e di bandire, nel contempo, ogni elemento italiano, chiamato al tempo indigeno, dalla corte e dal governo pontificio, elemento ritenuto infido, corrotto e traditore. In questo fervore non poteva evidenziarsi la scarsa fiducia, se non il malanimo verso la Francia di Napoleone III. Non si aveva più nessuna fiducia in Parigi ed a Roma si andò oltre le linee. L’ira contro Napoleone III era divenuta  così stranamente esagerata, che le dame del Sacro Cuore, nel convento di  Santa Rufina, gli avevano dato il nome di " primogenito del demonio" ed il Margotti lo aveva definito " l'uomo dalle tredici coscienze", per giungere alla "Civiltà Cattolica ", la rivista dei gesuiti, che ad ogni numero non risparmiava i più ingiuriosi epiteti.
In questo clima dichiaratamente ostile alla Francia, in cui sia il Comandante in Capo delle truppe francesi, gen. Goyon, sia l'Ambasciatore Gramont, mostravano di non capir nulla, l'ambasciatore austriaco Hubner, recentemente nominato, lasciava credere a tutti che la guerra era imminente; e una vittoria dell'Austria sicuramente sarebbe basta a cancellare tutto quello che i Sardi e i loro amici rivoluzionari avevano conquistato negli ultimi mesi, umiliando l'influenza francese in Italia e dando una lezione al Regno di Sardegna dieci volte più significativa di quella del 1848-1849.  Questo era il grande desiderio e la grande speranza non solo di Pio IX ma di tutto i partito ultramontano. Nonostante le dichiarate asserzioni di Napoleone che la Francia non avrebbe mai abbandonato Roma, e la presenza stessa delle truppe francesi, De Merode ed il suo partito confidava nell'Austria e, subordinatamente, nelle  proprie forze  armate.
Del resto la nomina di De La Moricière a Comandante in Capo dell'Esercito Pontificio  era stato un gesto  estremamente significativo in chiave antinapoleonica.
Napoleone III, peraltro, era mal servito dalla sua diplomazia a Roma non aveva chiara la situazione che si era maturata: comprendeva solo che il partito legittimista, a lui ostile  aveva una grande influenza su Pio IX, generando ulteriore confusione e dubbi.

Nei contrasti fra Napoleone III ed i suoi protetti, si inserisce abilmente Cavour.  Nessuno meglio del Treitschke condensò, subito dopo gli avvenimenti, in poche parole l'opera audace e spregiudicata  del ministro sardo:
"Cavour concepì il disegno di annullare con un colpo improvviso l'esercito della ristorazione di Lamoricièere, poi di effettuare l'unione del Mezzogiorno e così salvare coll'unità d'Italia, anche l'autorità della corona. Egli stesso considerò più tardi questo ardito pensiero come il migliore titolo della sua gloria: 'La monarchia era perduta se noi non eravamo presto al Volturno!'. Il 28 agosto Farini e Cialdini furono ricevuti dall'imperatore a Chambéry; essi rappresentavano che l'esercito legittimista della Curia minacciava il suo trono stesso; che Garibaldi voleva chiamare a sé Charras, l'antico avversario di Napoleone; che la spedizione del Veneto diventava una necessità, appena Garibaldi movesse sopra Roma. E allora che cosa  accadrebbe di ogni ordine civile, se la monarchia non istrappava il pugnale dalle mani del partito d'azione? Così stretto e messo al muro Napoleone non osò opporsi; ma il famoso  faites, mais faites vite, che gli fu posto in bocca, non lo ha mai detto."[3]
Napoleone non ha mai pronunciato tali parole, ma ormai è chiaro che l'Imperatore si lasciò penetrare anche troppo dalla politica del Cavour, che intuì di poter osare. Napoleone III non voleva l'unità d'Italia, che significava una perdita di influenza nella penisola. Il suo atteggiamento nel 1859 era apparso quanto mai  chiaro. Mirava a sostituire l'influenza austriaca con quella francese per controbattere e di equilibrare quella inglese., in un contesto generale. Per questo era risoluto a non voler abbandonare Roma, che cadrà in mani italiane solo quando lui cadrà a Sedan. Quando le truppe sarde passeranno il confine pontificio, l'11 settembre 1860, Napoleone III, estremamente turbato,  richiamo il suo ambasciatore da Torino.[4] Nel  contempo ordinò di rafforzare la guarnigione francese a Roma. Questo ordine  fu interpretato  in modo equivoco dall'ambasciatore francese a Roma, Gramont, tanto che lo stesso Gramont telegrafò al conte de Courcy, vice console francese ad Ancona, l'11 settembre,  lasciando  prevedere un intervento francese.[5] Come vedremo copia di questo dispaccio fu inviata dal De Merode  a De La Moricière che lo ricevette il 16 settembre .

In realtà Napoleone III sarebbe intervenuto solo se i Sardi avessero attaccato Roma ed il Patrimonio di San Pietro, l'odierno Lazio;[6] e non si sarebbero mossi qualora le Marche e l'Umbria sarebbero state invase.  Napoleone III da Chambéry  non rientrò a Parigi, ma si recò in Algeria, dove si fermò fino al termine delle operazioni nell'Italia Centrale, nella convinzione che in Africa sarebbe stato ben più lontano dalle pressioni e dalle agitazione che sicuramente si sarebbe provocata  stando a  Parigi.
 Questo gli attirò l'accusa di tradimento da parte del partito cattolico e l'odio viscerale di tutto il partito ultramontano, che vide in questo atteggiamento la conferma di quanto si pensasse a Roma dell'Imperatore.
Ma se  da parte francese il non intervento francese poteva anche essere ipotizzato, tutti gli eventi del settembre 1860  da parte pontificia furono condizionati dalla convinzione che l'Austria si sarebbe sicuramente mossa, e con una guerra decisiva, si sarebbe ripresa non solo la Lombardia ma avrebbe ripristinato il suo predominio e l'autorità dello Stato della Chiesa sulle Romagne e restituito i Lorena a Firenze. Ma a Vienna si era iniziato a pensare che in Italia la migliore politica era quella della difensiva. Non era possibile  tenere  tutto l'Impero unito lanciando guerre  successive. L'Ungheria era il vero problema e tutte le forze dovevano essere concentrate  affinché i magiari rimanessero nell'Impero.  Vienna  aveva timore che rivolte ed insurrezioni scoppiassero in Ungheria, dando inizio al processo di sfaldamento dell'Impero. Non ci si nascondeva che Kossuth era in Italia e con lui il Thurr e il Klapka e soprattutto non si ignorava i loro accordi e le loro intese con Cavour, la formazione della legione ungherese[7], e i progetti di portare la rivoluzione  a Budapest. Non per altro, dopo quanto successo nel meridione, Vienna sottolineava che i tre principali indipendisti ungheresi fraterni amici sia di Garibaldi che di Mazzini erano a Napoli. Paralizzata dal non intervento, in considerazione anche dei difficili rapporti con lo Zar, preoccupata dalla situazione interna soprattutto ungherese,  l'Austria  non si mosse. L Stato Pontificio doveva fare assegnamento solo sulle proprie forze, secondo quanto sosteneva il De Merode, oppure seguire gli avvenimenti, senza opporvisi, cercando di sfruttare le occasioni che si presentavano, in un abile politica di contenimento, secondo quanto sosteneva  il Cardinale Antonelli.
 Ottenuto il tacito accordo del non intervento francese, Cavour ordinò di provocare una sollevazione antipapale ad Urbino e nel Montefeltro, mentre il Masi doveva sconfinare dalla Toscana  al fine di ottenere un pretesto per invadere le Marche e l'Umbria.
Tale insurrezione  aveva anche lo scopo di giustificare, agli occhi degli Italiani, l'intervento nel sud, affinché non fosse palese che tutta l'operazione aveva lo scopo di eliminare dalla scena politica italiana il partito d'azione e Garibaldi.  I rapporti tra Cavour e Garibaldi furono sempre pessimi. Durante tutta la spedizione dei Mille, Cavour  era impaziente di prendere azioni contro Garibaldi, non facendone mistero con i suoi diretti collaboratori e con i suoi amici. Del resto in quei giorni Garibaldi , con frasi anche banali additava Cavour  all'odio pubblico. Esempi significativi sono il proclama ai palermitani, il colloquio di Caserta con Silvio Spaventa[8], il non voler accettare il plebiscito, la grande intesa con Bertani e con Crispi, dichiaratamente anticavourriani,. Esempi chiari, sottolineati dall’ordine dato a settembre da Garibaldi al colonnello Tripoti a Teramo "Ricevete i piemontesi a fucilate". L'insurrezione, quindi serve anche a giustificare l'azione verso Garibaldi. Cavour aveva anche valutato che Re Francesco era abbastanza forte nel nord del suo reame, ovvero a Napoli e negli Abruzzi.  E che cominciava a manifestarsi una reazione a suo favore. I 40.000 soldati borbonici schierati sul Volturno erano una reale minaccia, che una calata da nord  delle regie truppe sarde, avrebbe di molto annullato. Cavour aveva le idee molto chiare, ed il piano che via  via stava elaborando, alla fine di agosto presentava le condizioni per essere attuato.  Cavour,  ai primi di settembre, scriveva al colonnello Efisio Cugia, capo di stato maggiore del IV corpo d'Armata,  la seguente lettera , che rileva la sua impazienza, le sue ansie e il suo animo verso Garibaldi:
"Carissimo amico,
ti ringrazio delle buone notizie, che mi trasmetti col tuo foglio del 31 andante. Se le Marche sono in condizione di fare un moto serie, lo aiuteremo, e la faremo finita con Lamoricière. Non possiamo aspettare Garibaldi alla Cattolica; ma lo incontreremo al confine del regno di Napoli; credo che potremo lottare con lui. Il moto delle truppe verso il confine è cominciato. Tu sei all'avanguardia, ma ne consolo ché così avrai campo di farti onore e di passare presto dal comando di una brigata a quella di una divisione.
Si cerca di tenere coperto il nostro progetto, col dire che gli apparecchi si fanno per Napoli. Addio, mi scriverai il giorno in cui sarai entrato in Ancona Tuo affezionatissimo C. Cavour" [9]

 Il 7 Settembre 1'azione di quelle che successivamente saranno chiamate le forze insurrezionali ha inizio, coordinata dal Comitato di Rimini. Insorgono oltre Pergola, Santa Agata Feltria, Fossombrone, Pesaro, Fano, avendo successo ovunque meno che a Pesaro e Fano ove la presenza di guarnigioni pontificie bloccò sul nascere ogni azione.  La notizia delle sollevazioni pro - nazionali nell'urbinate provoca 1'immediata reazione pontificia: già il 9 Settembre 1860 due colonne mobili, della Brigata De Courten, muovono da Macerata verso il nord delle Marche, con il dichiarato scopo di soffocare ogni tentativo di ribellione al potere dei Papi. Questa iniziativa militare avrà delle ripercussioni nel corso delle operazioni iniziali della campagna delle Marche e dell'Umbria[10]
 Mentre le Marche settentrionali iniziano ad insorgere il Cavour  attua il suo piano: i giornali di Torino annunziano a  grossi caratteri la notizia che nelle Marche è in corso una insurrezione contro il papato e questa notizia viene diffusa, per telegrafo in tutta Europa.. Nel contempo  prende l'iniziativa diplomatica inviando un ultimatum politico - diplomatico al Governo Pontificio. Ordinò al conte Della Minerva, che era stato l'ultimo ambasciatore a Roma, di partire per Roma. Della Minerva, partito il 7 settembre da Genova,  sbarcò a Civitavecchia con un giorno di ritardo, il 9 anziché l'8 settembre, a causa di una burrasca nell'alto Tirreno. Il delegato pontificio non gli permise di proseguire, benché egli affermasse di essere latore di una lettera pressante di Cavour per il Cardinale Antonelli. Il delegato ritirò lui la lettera e la fece recapitare al segretario di Stato.
 
  Tale ultimatum[11]concepito proprio per  non essere accettato, prevedeva che se le forze nazionali operanti nelle Marche verranno affrontate e disperse dall'Esercito Pontificio, questo provocherà 1'intervento dell'Esercito Sardo[12], intervento resosi necessario per tutelare gli interessi nazionali e le aspirazioni all'italianità dei marchigiani. Era un ultimatum non corretto nella forma, come si può notare,  soprattutto  in quei passi in cui chiedeva lo scioglimento dell'Esercito Pontificio. Questo fu fatto notare anche dalla stampa  e dai partiti liberali inglesi, notoriamente vicini alle posizioni del Cavour. Ma Cavour  aveva fretta ed agi di conseguenza. In attesa della risposta  pontificia, che Cavour si aspettava per il 9, al più tardi, per il 10 settembre, il 9 settembre comunicò a tutti i rappresentanti diplomatici del Regno di Sardegna presso le Corti d'Europa, che il governo pontificio si era rifiutato di soddisfare  " le giuste richieste del suo sovrano e che perciò era costretto a far ricorso ad una azione di guerra "[13] Nel contempo aveva ordinato  a Fanti  di avviare i preliminari per passare la frontiera
La risposta pontificia,[14] l'11 Settembre 1860, non si fece attendere: 1'ultimatum è respinto con ferme parole, non prive di argomentazioni valide e con una certa dignità.
Ma oramai la parola era passata alle armi, essendosi già messa in moto la macchina dell'invasione. .
 Alle ore 12 del 10 Settembre 1860 il Capitano di Stato Maggiore dell'Esercito Sardo, Farini, si presentò al Quartier Generale dell'Esercito Pontificio a Spoleto, recante un ultimatum militare, che fu presentato al Generale De La Moricière, Comandante in Capo dell'Armata Papale. Questo ultimatum era a firma del Generale Fanti, posto dal Cavour a capo delle forze d'invasione sarde[15], ove "si dichiarava che, per ordine di Vittorio Emanuele , Re di Sardegna, il territorio pontificio sarebbe stato subito invaso dalle truppe sarde, se da parte dell'Esercito Pontificio vi fosse stata una qualsiasi repressione di manifestazioni di sentimenti popolari, e se manifestazioni del genere fossero assecondate , ritirando immediatamente l'Esercito dai luoghi dove esse avvenivano"[16] ovvero la richiesta prevedeva la richiesta di sgombero delle Marche e dell'Umbria da parte dell'Esercito Pontificio.
De La Moricière nella sua relazione così scrive:
"Fui indignato dalla lettera consegnatami e, poiché il capitano Farini, al quale avevo fatta cortese accoglienza, mi disse di essere a conoscenza del contenuto della lettera di cui era latore, gli feci osservare che mi si proponeva di evacuare senza conflitto provincie di cui mi era stata affidata la difesa: che per me e il mio esercito ciò sarebbe stata una vergogna e un disonore; che il re del Piemonte ed il suo generale avrebbero potuto fare a meno di inviarmi tale diffida , dichiarandoci più lealmente  la guerra; infine , che, nonostante la superiorità numerica del Piemonte, noi non avremmo dimenticato che per difendere l'onore oltraggiato del governo di cui sono al servizio, ufficiali e soldati non devono tener conto né del numero dei nemici, né della salvezza della loro vita"[17]
 Anche questo ultimatum venne naturalmente respinto determinando l'inizio delle ostilità, a decorrere dalla mezzanotte del 10 Settembre.
Alle truppe sarde furono indirizzati  ordine del giorno da parte di Vittorio Emanuele, Fanti, Morozzo della Rocca e Cialdini. Vittorio Emanuele  nel suo ordine del giorno sottolinea che le truppe entrano nelle Marche e nell'Umbria " per liberare le infelici provincie  dell'Italia  dalla presenza di avventurieri stranieri"[18] Un proclama che rileva gli accordi con la Francia e la parte del progetto cavourriano di intervento, ove si nasconde abilmente l'obbiettivo di giungere al Sud, a neutralizzare Garibaldi. Né il Governo né la diplomazia  pontificia riescono a cogliere questo messaggio, e per tutta la durata della campagna sperano in un intervento francese ed austriaco. Ci si attarda sulle recriminazioni ed invettive come quella del vescovo di Orlèans, che commentando l'invasione  scrive:
"Così, senza una dichiarazione di guerra . senza nessuna delle decorose forme convenzionali che sono l'ultima salvaguardia dell'onore fra i popoli civili, come se vivessimo ancora nella più oscura barbarie, masse armate invasero gli stati pontifici"[19]  Ma lo Stato Pontificio fu abbandonato da tutte le corti d'Europa. Le cattoliche Austria e Spagna, la scismatica Russia e la Prussia protestante, furono unanimi nel protestare e ritirare i loro  ambasciatori accreditati presso il Regno di Sardegna, come del resto fece la Francia. Solo la Gran Bretagna  lasciò il suo ambasciatore a Torino. Questa protesta, però, rimase solo tale e non fu seguita da alcun atto concreto. Nessuno in Europa voleva salvare gli ultramontani di Roma.

I proclami dei comandanti in capo delle truppe furono più rudi e militareschi, del resto indirizzati a truppe in procinto di entrare in azione.
Fanti  sottolineava che i  soldati sardi  avevano dovuto abbandonare le proprie case ed il loro paese per combattere  quelli che venivano indicati come " uomini senza patria né tetto, che avevano piantato sul  suolo dell'Umbria la falsa bandiera di una assurda religione"
Cialdini, dimenticando che nel 1848 aveva rivestito il grado di colonnello nell'Esercito Pontificio e sotto le sue bandiere aveva combattuto nel Veneto e vi era stato ferito, dal Quartier Generale di Rimini, l'11 settembre invia questo proclama:
"Soldati del IV Corpo, vi conduco contro una masnada di briachi stranieri, che sete d'oro e vaghezza di saccheggio trasse nei nostri paesi. Combattete, disperdete inesorabilmente quei compri sicari, e per mano vostra sentano l'ira di un popolo, che vuole la sua nazionalità e indipendenza. Soldati!l'inulta Perugia domanda vendetta  e, benché tarda, l'avrà. Enrico Cialdini"
All’alba dell11 settembre le truppe Sarde passano il confine, dando inizio alle operazioni di invasione. Ogni azione, ogni gesto da parte sarda è indirizzato ad agganciare in campo aperto le forze mobili pontificie e disperderle; da parte pontificia tutto è indirizzato a resistere possibilmente in qualche piazzaforte, in attesa dei già annunciati aiuti delle Potenze amiche, sopratutto l’Austria.
Si delinea così le volontà delle parti, che si esplicano in una fase concettuale, teorica per la focalizzazione degli obbiettivi, ed una fase esecutiva, ovvero la realizzazione di quelle azioni necessarie per la realizzazione ed il conseguimento dei medesimi.
Nessuno delle due parti aveva progettato la battaglia che si accese il 18 settembre nella piana del Musone: una la ricercava, l’altra la voleva assolutamente evitare. Pertanto la battaglia di Castelfidardo fu una battaglia d’incontro, combattuta al seguito ed al susseguirsi degli eventi.



1  Federic Francois  Xavier de Merode nacque a Bruxelles nel 1820. Dopo aver ricevuto una educazione tipica della medio borghesia agiata, nel 1839 entra nella Scuola Militare, ove ne esce due anni dopo con il grado di sottotenente, al 10 Reggimento di Linea.. L'impatto  con la vita militare non è positivo e chiede al Re Leopoldo I di accordargli il permesso di servire nell'esercito francese. Raggiunta l'Algeria, è aggregato allo Stato Maggiore personale del Maresciallo Bugeand.. Nelle operazioni che seguirono alla battaglia d'Isly (1844) mette in luce coraggio e spirito d'iniziativa, meritando la croce della Legion d'Onore. Nel 1845 rientra in Francia. Dopo un viaggio a Roma, chiede di dimettersi dall'esercito per seguire  la vocazione religiosa. Dimesso con il grado di Capitano, il 22 dicembre 1847 è esonerato da tutti i servizi nell'esercito. Dopo un noviziato intenso, il  23 dicembre 1848 riceve la tonsura ed inizia la carriera religiosa. IL biennio 1848-1849 per l'Europa e per lo Stato Pontificio. De Merode in questi frangenti compie numerose azioni rischiose, tra cui quella di attaccare per i portoni della Roma rivoluzionaria ed anticlericale, la lettera di scomunica che Pio IX ha mandato al Governo Provvisorio. . In una di queste è arrestato e tradotto in carcere. Evade, aiutato dalla figlia del suo carceriere: il giovane ex-capitano, anche se prete, sapeva usare ogni mezzo per uscire da difficili situazioni. Dopo il rientro in Roma del Papa, De Merode è ordinato sacerdote il 22 settembre 1849. Il 12 aprile 1850 Pio IX lo nomina cameriere segreto partecipante. Con il passare degli anni De Merode acquista sempre più influenza, divenendo uno degli esponenti di spicco del partito ultramontano . Con l'intervento della Francia in Italia, la perdita delle Romagne e l'annessione degli Stati dell'Italia Centrale al Regno di Sardegna, Pio IX si convince che lo Stato va difeso anche con il proprio esercito. E' il momento di maggior fulgore per De Merode: chiama al comando dell'Esercito Pontificio il gen. De La Moricière, bandisce una crociata legittimista in tutta Europa, chiama i cattolici a difendere la cattedra di San Pietro, svolge una azione diretta a rafforzare le difese. Dopo la caduta di Ancona continua a potenziare l'Esercito Pontificio.
Ma l'evolversi della situazione internazionale e la convenzione di settembre 81864) lo pongono in contrasto con Pio IX e si accentua il suo disaccordo con l'Antonelli.. Il 6 ottobre 1865 è sostituito come Pro Ministro per le Armi dal gen. Kanzler, accettando di divenire il Cappellano Militare di Pio IX., perdendo via via ogni influenza politica. Con il 1870
Si ritira a vita priva, conduce numerose speculazioni finanziare, tutte molto fortunate, con le quali da vita a numerose istituzioni di beneficenza. Si spegne nel 1874.
[2] Il Papa e la sua corte fino al 1870 risiedeva  al  Palazzo del Quirinale; con l'entrata delle truppe Italiane nel settembre 1870 si ritirò nella cosiddetta città Leonina, sul colle del Vaticano, che poi, nel 1929 divenne  la Città del Vaticano.
[3] De Treitschke ,E., Il Conte di Cavour, trad. di A. Guerrieri Gonzaga, Firenze, Barbera, 1873
[4] L'ambasciatore sardo a Parigi, Costantino Nigra, nella visita di congedo testimonia che Napoleone III, stringendogli la mano bonariamente, disse " au revoir, mon cher Nigra"., significando che una lezione ai legittimisti di Roma non gli sarebbe dispiaciuta.
[5]  Il dispaccio così era concepito. "L'Imperatore ha scritto da Marsiglia al Re di Sardegna che se truppe piemontesi penetreranno nei territori pontifici, sarà costretto ad opporvisi; Ordini sono già stati impartiti per l'imbarco di truppe a Tolone e questi rinforzi giungeranno immediatamente. Il governo dell'Imperatore non tollererà la colpevole aggressione del governo Sardo. In qualità di viceconsole di Francia voi dovete regolare la vostra condotta in conformità. Firmato Gramont."
[6] Il 1 settembre 1860 il generale de Nouè, che comandava la guarnigione ausiliaria francese di Roma, pubblicò un significativo proclama, annunziando di avere avuto dall'Imperatore l'ordine di difendere da tutti gli attacchi la città di Roma, la Comarca e le provincie di Civitavecchia e di Viterbo; in altre parole, la massima parte del territorio lasciato alla Santa Sede dal 1860 al 1870.. Il proclama aveva come significato che l'esercito francese non avrebbe esteso le sue operazioni oltre i limiti predetti; a conferma delle intese di Chambéry.
[7] Tale legione si formo, e nel 1867 ebbe di stanza ad Ancona
[8]  Riportato dal De Cesari " il dittatore , battendo con la punta della sciabola il pavimento, diceva: - Cavour ha il cuore più duro di questo marmo e Napoleone III ha la coda di paglia, alla quale darò fuoco"
[9] De Cesare, R., Roma e lo Stato del Papa, cit., pag. 397
De Casari R., Roma e Lo Stato del Papa, Longanesi e C, Milano, 1971, pag. 399
[10] Ad Urbino alle ore 7 dell'8 settembre 1860, l'avanguardia delle forze insurrezionali, dopo un  breve scambio di fucilate con una pattuglia pontificia, occupa porta Santa Lucia e giunse a Piazza San Francesco. I pontifici, due compagnie di ausiliari ed una quarantina di gendarmi al comando del cap. Gennari, furono sorpresi ed opposero una resistenza che durò meno di un'ora. Si ebbero un morto ed una decina di feriti fra i pontifici, nessuno tra gli insorti. Abbattuti gli stemmi pontifici, fu subito creato un governo provvisorio  con a capo il marchese Luigi Tanari, che svolse anche le funzioni di regio Commissario Sardo. Alla sera del 9 settembre, due giorni prima dell'inizio dell'invasione vi erano concentrati circa 2000 delle forze insurrezionali. Moti insurrezionali in questi giorni scoppiarono anche ad Ancona e a Camerano, ma la situazione fu subito posta sottocontrollo dal Comando della Piazza di Ancona.
[11] Il testo dell'ultimatum è il seguente:
Torino, lì 7 settembre 1860
Eminenza,
il governo di S.M. il Re di Sardegna non poté vedere senza grave rammarico la formazione e l'esistenza dei corpi di truppe mercenarie straniere al servizio del Governo Pontificio. L'ordinamento di siffatti corpi non formati, ad esempio di tutti i Governi civili, di cittadini del paese, ma di gente di ogni lingua, nazione, e religione, offende  profondamente la coscienza pubblica dell'Italia e dell'Europa. L'indisciplina inerente a tale genere di truppe, l'improvvida condotta dei loro capi, le minacce provocatrici di cui fanno pompa nei loro proclami, suscitano e mantengono un fenomeno oltremodo pericoloso. Vive pur sempre, negli abitanti delle Marche e dell'Umbria, la memoria dolorosa delle stragi e del saccheggio di Perugia. Questa condizione di cose, già da per se stessa funesta, lo divenne di più dopo i fatti che accaddero nella Sicilia e nel reame di Napoli. La presenza dei corpi stranieri, che ingiuria il sentimento nazionale, ed impedisce la manifestazione dei voti dei popoli, produrrà immancabilmente la estensione dei rivolgimenti nelle provincie vicine. Gl'intimi rapporti  che uniscono gli abitanti delle Marche e dell'Umbria con quelli delle Provincie annesse agli Stati del Re e le ragioni dell'ordine e della sicurezza dei propri Stati impongono al Governo di S. Maestà di porre per quanto sta in lui immediato riparo a questi mali. La coscienza del re Vittorio Emanuele non gli permette di rimanersi testimonio impassibile delle sanguinose repressioni, con cui le armi dei mercenari stranieri soffocherebbero nel sangue italiano ogni manifestazione di sentimento nazionale. Niun governo ha diritto di abbandonare all'arbitrio di una schiera di soldati di ventura gli averi, l'onore, la vita degli abitanti di un paese civile.
Per questi motivi, dopo aver chiesti gli Ordini di Sua Maestà il Re mio augusto  sovrano, ho l'onore di significare a Vostra Eminenze, che le truppe del Re hanno incarico d'impedire, in nome dei diritti dell'umanità, che i corpi mercenari Pontifici reprimano colla violenza l'espressione dei sentimenti delle popolazioni delle Marche e dell'Umbria.
Ho inoltre l'onore d'invitare Vostra Eminenza per i motivi sovraespressi a dar l'ordine immediato di disarmare e disciogliere quei corpi, la cui esistenza è una minaccia continua alla tranquillità d'Italia. Nella fiducia che Vostra Eminenza vorrà comunicarmi tosto le disposizioni date dal Governo di Sua Santità in proposito, ho l'onore di rinnovarle gli atti dall'altra mia considerazione.
Di Vostra Eminenza
Firmato C. Cavour. i
[12] La dizione Esercito Italiano è usata in più testi. L'Esercito Sardo assume la dizione di esercito Italiano nel 1861, ovvero l'anno dopo gli avvenimenti di Castelfidardo. Si userà quindi sempre in questo volume, la dizione di Esercito Sardo. Del pari, si userà anche la dizione "piemontese" per indicare il Regno di Sardegna e le sue Forze Armate, adottando l'uso comune di identificare il Regno di Sardegna con la regione del Piemonte, anche se tale Regno, nel 1860, comprendeva oltre la Sardegna e il Piemonte, anche la Valle d'Aosta, la Liguria, la Lombardia,  e per i plebisciti del 1959, la Toscana e l'Emilia Romagna.
[13] O'Clery K.P., Risorgimento Controluce, - La Questione italiana vista da uno zuavo di Pio IX, , a cura di De Cesare G, Scognamiglio G., Editore Colombo,  Roma, 1965, pag, 169
[14] IL testo della risposta è il seguente:
Eccellenza
Astraendo dal mezzo di cui Vostra Eccellenza stimò valersi per farmi giungere il suo foglio del 7 corrente, ho voluto con tutta calma portare la mia attenzione a quanto Ella mi esponeva in nome del suo Sovrano, e non posso dissimularle che ebbi in ciò a farmi una ben forte violenza. I nuovi princìpi di diritto  pubblico, che Ella pone in campo nella sua rappresentanza, mi dispenserebbero per verità da qualsivoglia risposta, essendo essi troppo in opposizione con quelli sempre riconosciuti dall'universalità dei Governi e delle Nazioni. Ma tocco al vivo dalle incolpazioni, che si fanno al Governo di Sua Santità, non posso ritenermi dal rilevare dapprima essere quanto odiosa, altrettanto priva di ogni fondamento ed affatto ingiusta, la taccia che si porta contro le truppe recentemente formatesi dal Governo Pontificio; ad essere poi inqualificabile l'affronto che ad esso vien fatto nel disconoscere in lui un diritto a tutti gli altri comune., ignorandosi fino ad oggi che sia impedito ad alcun governo di avere al suo servigio truppe estere, siccome in fatto molti le hanno in Europa sotto i loro stipendi. Ed a questo proposito sembra qui opportuno notare che, stante il carattere che riveste il Sommo Pontefice di comune padre di tutti i fedeli, molto meno potrebbe a Lui impedirsi di accogliere nelle sue milizie quanti gli si offrono dalle varie parti dell'orbe cattolico, in sostegno della S. Sede degli Stato della Chiesa.
Niente poi potrebbe essere più falso ed ingiuroso, che l'attribuirsi alle truppe pontificie i disordini deplorevolmente avvenuti negli Stati della Santa Sede, né qui occorre il dimostrarlo. Doppoichè la storia ha già registrato quali e donde provenienti siano state le truppe, che violentemente imposero alla volontà delle popolazioni, e quali le arti messe in opera per gettare nello scompiglio la più gran parte dell'Italia, e manomettere quanto v'ha di più inviolabile e di più sacro per diritto e per giustizia.
E rispetto alle conseguenze, di cui si vorrebbe accagionare la legittima azione delle truppe della S. Sede, per reprimere la ribellione di Perugia, sarebbe invero stato più logico l'attribuirle a chi promosse la rivolta all'estero: ed Ella, signor Conte, troppo ben conosce donde quella venne suscitata, donde furono somministrati danaro, armi e mezzi di ogni genere, e donde partirono le istruzioni e gli ordini di insorgere.
Tutto pertanto dà luogo a conchiudere, non avere che il carattere della calunnia quanto declamasi da un partito ostile al Governo della Santa Sede a carico delle milizie, ed essere non meno calunniose le imputazioni che si fanno ai loro capi, dando a crederli come autori di minacce provocatrici, e di proclami propri a suscitare un pericolo fermento.
Dava poi termine alla sua disgustosa comunicazione l'Eccellenza Vostra, coll'invitarmi in nome del suo Sovrano ad ordinare immediatamente il disarmo e lo scioglimento delle suddette milizie, e tal invito non andava disgiunto da una specie di minaccia di volersi altrimenti dal Piemonte impedire l'azione di esse, per mezzo delle regie truppe. In ciò si manifesta una quasi intimazione, che io ben volentieri qui mi astengo di qualificare. La Santa Sede non potrebbe che respingerla con indignazione, conoscendosi forte del suo legittimo diritto, ed appellando al gius delle genti, sotto la cui egida ha fin qui vissuto l'Europa; qualunque siano del resto le violenze, alle quali potesse trovarsi esposta senza averle punto provocare, e contro le quali fin da ora mi corre il debito di protestare altamente in nome di Sua Santità
Di Vostra Eccellenza,
Firmato: G.Card Antonelli.     Roma 11 settembre 1860  
[15] Per il quadro di battaglia del Corpo di Invasione delle Marche e dell’Umbria, Corpo posto, sotto il comando del gen. Manfredo Fanti, e comprendente il IV e il V Corpo d’Armata, si invia al volume I, L’anno di Castelfidardo.
[16] O' Clery. K., Risorgimento controluce, cit., pag. 168
[17] Relazione De La Moriciére
[18] Il testo è il seguente.
"Ordine del giorno del Re Vittorio Emanuele all'Esercito che entra nelle Marche e nell'Umbria.
Soldati!
Voi entrate nelle Marche e nell'Umbria per restaurare l'ordine civile nelle desolate città , e per dare ai popoli la libertà di esprimere i propri voti. Non avete a combattere potenti eserciti , ma liberare infelici provincie Italiane dalle straniere compagnie di ventura. Non andate a vendicare le ingiurie fatte a me e all'Italia, ma ad impedire che gli  odii popolari irrompono a vendetta della mala signoria. Voi insegnerete coll'esempio il perdono dell'offese e le tolleranze cristiane a chi stoltamente paragonò all'Islamismo lo amore alla patria Italiana. In pace con tutte le potenze, ed alieno da ogni provocazione, io intendo togliere dal centro dell'Italia una cagione perenne di turbamento e di dissensione. Io voglio rispettare la Sede del Capo della Chiesa al quale son sempre pronto a dare, d'accordo colle potenze alleate ed amiche, tutte quelle guarentigie d'indipendenza e sicurezza che i suoi ciechi consiglieri si sono indarno ripromessi dal fanatismo delle sette malvagie cospiranti contro la  mia autorità e la libertà della Nazione.
Soldati!
Mi accusano d'ambizione. Si, ho un'ambizione, ed è quella di rafforzare i principii dell'ordine morale in Italia, di preservare l'Europa dai continui pericoli della rivoluzione e della guerra.
[19] 0'Clery K., Risorgimento controluce,  cit., pag. 169

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